Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

I terreni confiscati alla criminalità organizzata e l’uso sociale degli strumenti di pianificazione

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di: Giuseppe Caridi

EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013.

Secondo le stime dell’Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente (2012), la criminalità organizzata impone la sua presenza nel tessuto economico e sociale delle città e delle campagne italiane, garantendosi con iniziative illegali legate all’ambiente (“ecomafia”) un giro d’affari pari a 16,6 mld. di euro nel solo 2011, per un totale di 33.817 reati ambientali accertati; di questi, il 47,7% è stato commesso nelle quattro regioni a più elevata presenza mafiosa (Campania, Calabria, Sicilia e Puglia). Sempre nello stesso anno, il solo ciclo illegale del cemento ha fatto registrare 25.800 abusi tra nuove costruzioni e trasformazioni significative per 1,8 mld. di euro.

L’azione di contrasto ai reati di origine mafiosa

L’azione di contrasto a queste attività condotta dallo Stato da circa due decenni ha determinato la confisca e la successiva riconversione “legale” di consistenti patrimoni appartenuti a mafiosi [1]. L’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) ha reso nota la situazione al 7 gennaio 2013: nelle quattro regioni a più elevata presenza mafiosa, risultano confiscati 11.238 beni immobili, l’81,0% del totale confiscato in Italia [2]. Fra i beni immobili, sono in maggioranza quelli per cui è stato completato l’iter di confisca e riassegnazione (5.859). Seguono per numerosità i beni per cui non è stata ancora definita una destinazione finale, e che rimangono quindi patrimonio dello Stato (3.995), quelli per cui è stata definita la destinazione, ma che non è stato ancora possibile consegnare (907), e quelli usciti dalla gestione (477).
I beni confiscati vengono restituiti alla collettività attraverso cooperative sociali che svolgono attività produttive volte essenzialmente all’inserimento nel mercato del lavoro di persone svantaggiate. Attraverso questo percorso si restituisce alla collettività il capitale fisico della terra (il suolo) e si consente di generare un circuito legato alla responsabilità sociale e all’inclusione delle fasce più deboli nel mercato del lavoro.
Ma queste pratiche assumono anche una valenza più generale, poiché evidenziano come il recupero della legalità possa diventare un fattore cruciale per sostenere la diffusione di una concezione alternativa del suolo. Da qui, è immediato il riferimento al tema dei beni comuni, e alla sua specifica declinazione che riguarda, appunto, il suolo.

Il valore del suolo

La cultura contemporanea, dominata dall’ideologia di mercato posta al di sopra di ogni valore, ha progressivamente perduto ogni consapevolezza delle gravi conseguenze legate al considerare il suolo come l’ennesima merce. Il progressivo rafforzamento di questa concezione durante il XX secolo ha fatto saltare il “codice condiviso” che legava la territorialità, ossia il processo di costruzione del territorio basato sull’insieme di relazioni soggetto/ambiente, ad una peculiare visione del suolo come bene comune. Una visione cioè che, considerandolo un bene utile a soddisfare un bisogno collettivo primario, ne presupponeva un utilizzo ed una gestione collettiva (Caridi 2010). Per scardinare i processi che hanno contribuito a determinare l’attuale mercificazione ideologica e culturale nei confronti del suolo, è necessario uno spostamento d’ottica e di prospettiva culturale: si deve tendere a recuperare l’originaria concezione del suolo come bene comune. Un’istanza che dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata e, nello specifico ambito disciplinare dell’urbanistica, sui fondamenti epistemologici della pianificazione.
Poiché i beni comuni sono una classe di beni che si proietta nell’esperienza sociale come presupposto di ogni forma di agire e, insieme, come esito dell’interazione sociale (Donolo 1997), è necessario lavorare per mettere in primo piano l’intreccio fra processi di governo del territorio e istanze che emergono dalle società insediate. E da qui, sedimentare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare. Qui va posto, a mio avviso come obiettivo strategico, l’uso sociale degli strumenti di pianificazione.

L’uso sociale degli strumenti di pianificazione

Nella cassetta degli attrezzi della pianificazione e programmazione esistono molti strumenti. Da più parti si afferma che sono ridondanti e che producono un sistema complicato, farraginoso e contraddittorio; ma, soprattutto, colpisce la posizione di quanti ritengono che abbiano esaurito la loro “carica euristica” di interpretazione e prefigurazione della realtà. Sebbene queste osservazioni siano in molti casi certamente condivisibili, in questo lavoro si ritiene che sia ancora possibile una reinterpretazione di tali strumenti, un loro utilizzo consapevole e soprattutto “creativo”, tale da contribuire ad aggredire il tema con esiti positivi. È questa la sfida dell’efficacia degli strumenti di piano nel nuovo millennio, che non è tanto legata a questioni tecniche, quanto alla loro essenza politica ed alla possibilità di un loro uso sociale, in grado di riconsegnare alle comunità insediate capacità “creativa” (perciò progettuale) e di autodeterminazione.
Nell’ottica di considerare le regolazioni sociali come il presupposto per l’efficacia della “norma” e della legalità si muove anche la prospettiva di ricerca di Marco Cremaschi (2012); e nell’ambito di questo quadro si colloca anche la cosiddetta “crisi di senso dei saperi tecnici”, che coinvolge anche il mestiere dell’urbanista ma che, più in generale, è alimentata della mancanza di responsabilità etica nelle scelte operate dai vari attori operanti sul territorio e che a vario titolo contribuiscono a definire il mondo delle professioni (Granata e Savoldi 2012).
Questa visione deve ad ogni modo basarsi sulla produzione di strategie operative ed azioni concrete. Provo allora a suggerire una linea di lavoro che, se adeguatamente sviluppata, può aiutare a sostanziare una diversa figura identificativa del suolo. Si deve prestare la massima attenzione agli strumenti “formali”, agli strumenti cioè che vengono affidati alle istituzioni territoriali locali: Regione, Provincia, Comuni. In questo contesto, obiettivo prioritario è ridare centralità alla pianificazione comunale. È a questo livello che trova maggior forza l’istanza del suolo come bene comune, perché i Comuni sono le istituzioni territoriali che hanno, per norma, il compito di definire le dinamiche “concrete” dell’insediamento e le modalità di uso del suolo.
Una strategia che, a questo livello, potrebbe rivelarsi utile si basa su percorsi di premialità per quei Comuni che hanno saputo destinare e riconvertire alla legalità i terreni confiscati. Ma, più in generale, dovrebbe essere incentivata la capacità dei Comuni di mettere in campo azioni basate su metodiche d’uso del suolo capaci di porre attenzione verso il tema dei beni comuni (ad esempio per i terreni demaniali, o per quelli di proprietà pubblica). E poiché, come sostengono alcuni autori, i Comuni, specie quelli di piccola dimensione, sono i primi responsabili di un uso insostenibile della risorsa suolo nel nostro paese, sarebbe opportuno integrare politiche di cooperazione delle decisioni che disciplinano gli usi del suolo fra comuni contermini o, comunque, impegnati nella gestione/uso di risorse comuni (Pileri e Granata 2012).

Conclusioni

Mettere al centro la pianificazione istituzionale, ed in particolare quella di livello comunale, non significa rinunciare alle possibilità offerte dagli altri strumenti: va quindi prestata particolare attenzione alle possibili sinergie fra strumenti “formali” e strumenti “diversamente orientati”, ossia quelli non direttamente affidati alle istituzioni territoriali locali.
Mentre, al contrario, vanno assolutamente combattuti quegli strumenti che tendono a mortificare la cogenza e la valenza strategica dei piani ed a espropriare gli abitanti della loro capacità creativa: tra questi, gli Accordi di Programma rappresentano probabilmente il peggiore esempio, in quanto strumenti che alterano, in maniere troppo disinvolta, la definizione delle modalità di uso del suolo.
Per concludere, i terreni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali contribuiscono a ricordarci che il diritto a definire le modalità di uso del suolo è comune: spetta a ciascuno di noi esercitarlo nell’interesse della collettività; dal modo in cui ciò è reso possibile si misura la qualità delle nostre vite. Perciò abbiamo bisogno di buona urbanistica.

Giuseppe Caridi, Università Mediterranea di Reggio Calabria

Riferimenti bibliografici

Legambiente (2012), Ecomafia 2012. Le storie ed i numeri della criminalità ambientale, Milano: Edizioni Ambiente.

Pileri P., Granata E. (2012), “Italia polverizzata”, in Agriregionieuropa, a. 8, n. 29.

Donolo C. (1997), L’intelligenza delle istituzioni, Milano: Feltrinelli.

Caridi G. (2010), Figure identificative del suolo. Per una ridefinizione come bene comune, Tesi di dottorato, Reggio Calabria: Università Mediterranea.

Cremaschi M. (a cura di, 2010), “Mafia e territorio”, in Urbanistica, n. 142.

Granata E., Savoldi P. (a cura di, 2012), “Gli habitat delle mafie al Nord”, in Territorio, n. 63.

Note

[1] Il sequestro e l’acquisizione dei beni dei mafiosi da parte dello Stato sono stati introdotti con la L. 646/1982. Tuttavia fino all’approvazione della L. 109/1996 era del tutto inadeguata la capacità di riutilizzo a scopi sociali dei beni confiscati.

[2] Risale al 2010 l’istituzione dell’Agenzia nazionale, ora regolata dal D. Lgs 159/2011.

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1 Comment

  • stefano aragona

    Interessante e condivisibile per molte parti: va divulgato.
    Saluti.
    Stefano Aragona
    Ing., PhD. , Ricercatore in Urbanistica
    Master of Sciences in Economy Policy & Planning
    Dipartimento Patrimonio, Architettura, Urbanistica
    Università Mediterranea di Reggio Calabria
    Via salita Melissari, Feo di Vito
    89124 Reggio Calabria – Italia
    +39 0965.809521
    320.2347796

 
 

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