Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Salviamo l’università, la ricerca e, perchè no, professori e ricercatori

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di: Giuliano Laccetti, Carmela Cappelli, Davide De Caro, Fabio Murena

EyesReg, Vol.6, N.4, Luglio 2016

 

In ogni paese moderno che si rispetti, si sa che la formazione e i saperi sono determinanti per il consolidamento della sfera pubblica democratica, per la crescita reale e per l’incremento dell’occupazione. L’art. 9 della Costituzione italiana stabilisce: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. Questo perché cultura e ricerca sono temi strettamente intrecciati: se non c’è alta formazione, se non c’è formazione tout court, non c’è sviluppo.

Istruzione, saperi, università e ricerca, sono dunque fattori strategici per lo sviluppo economico del paese, per la creazione di posti di lavoro (più posti e più qualificati), per lo sviluppo della democrazia. Contribuiscono, inoltre, al raggiungimento di una maggiore consapevolezza dei diritti, in tutti i campi, da quello economico e sociale a quello civile, in altre parole, contribuiscono ad un aumento della cultura della legalità.

In questi ultimi anni (almeno 10-15) governi di ogni colore, da Berlusconi a Prodi … fino a Renzi, hanno perseguito, con una coerenza davvero inusuale per la politica italiana, un medesimo programma, anche se non esplicitamente dichiarato, di riforma dell’Università, quasi un pensiero unico sull’Accademia. Il risultato più evidente di questo programma, è che, in controtendenza con la maggior parte dei paesi avanzati ed emergenti, l’Italia ha disinvestito fortemente dall’università nel corso degli ultimi dieci anni.

Tabella 1

 

Il finanziamento pubblico

Facciamo un attimo un passo indietro per capire come si è arrivati allo stato attuale. A partire dal DL n. 112/2008 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” convertito nella Legge n. 133/2008, si è ottenuto:

  • Riduzione in cinque anni (2009-2013) di circa 1500 M€ del “Fondo di Finanziamento Ordinario” (FFO) il principale strumento di finanziamento delle Università. Ciò comporta un taglio medio di 300 M€ per anno, che si traduce in: riduzione dei servizi agli studenti, riduzione delle infrastrutture (aule, laboratori, biblioteche), peggioramento della qualità della didattica e riduzione delle attività di ricerca
  • Taglio del turn over. Le percentuali di turnover rispetto ai pensionamenti dell’anno precedente sono state 35% nel 2008; 20% nel 2009, 2010 e 2011 e 50% nel 2012.

Colmo dell’ironia è che lo scopo dichiarato del decreto era quello dello sviluppo economico, della semplificazione, della competitività, della stabilizzazione della finanza pubblica e della perequazione tributaria. Da allora ad oggi, invece il prodotto interno lordo ha registrato -10%; il rapporto deficit/PIL +27%; la spesa pubblica: +11%; la disoccupazione: +8%.

E per l’Università? Ecco i risultati: entrate strutturali -15%; FFO -22%; personale docente -17%; personale tecnico amministrativo -18%; numero di corsi di studio -18%; immatricolazioni -20%.

Da notare che l’impoverimento di docenti, 17% in media, è relativamente basso negli Atenei del Nord (6-7%), alto al Centro-Sud (22% al Centro, 18% al Sud).

Tagli così forti alle strutture universitarie non possono non danneggiare la ricerca e, infatti, non sono mancate le voci di protesta. È del febbraio di quest’anno una lettera-appello di Giorgio Parisi (2016), eminente fisico della Sapienza di Roma, e di altri autorevoli scienziati e ricercatori, all’UE e ai ricercatori di tutto il mondo perché facciano pressione sul governo italiano per sanare quelle che appaiono vere e proprie ferite (elencate e descritte anche in un appello ad hoc [1]).

I fondi italiani per la ricerca di base sono, ad esempio, circa un decimo dei fondi francesi e l’Italia ha disatteso, più di altri membri dell’UE, il trattato di Lisbona del 2000 e le decisioni del Consiglio Europeo di Barcellona del 2002 che fissavano una soglia minima del 3% del PIL per ricerca e sviluppo da raggiungere già nel 2010. In un convegno svoltosi a Milano (AA.VV., 2016a) è stato mostrato come la spesa complessiva media del periodo 2008-2013 in Ricerca in Italia sia all’incirca dell’ 1.2% del PIL, a fronte di un 1.3% della Spagna, 1.7% del Regno Unito, 2.2% della Francia, 2.8% della Germania, e circa il 2% di media della UE a 28 membri.

Secondo le relazioni della Ragioneria Generale dello Stato, tra il 2008 ed il 2014, delle 34 grandi Missioni di cui si compone il Bilancio dello Stato, quelle che hanno subito maggiori ridimensionamenti in termini di finanziamenti, sono nell’ordine; Istruzione Universitaria (– 19,9% in media, con una riduzione cumulata pari al 119%); Fondi da ripartire (-14,5% in media e una riduzione cumulata pari all’87%) e Ricerca e Innovazione (-12,17% in media, -73,03% in termini cumulati) (Carra, 2016)

 

Il finanziamento alle università

Volendo approfondire la questione del finanziamento universitario, ci si domanda quali siano le entrate degli Atenei in Italia. Gli Atenei hanno tre diverse tipologie di finanziamento: studenti (tasse), Stato (FFO), altro (questa voce è estremamente eterogenea, includendo sia finanziamenti privati, sia fondi derivanti da progetti competitivi internazionali). Ora la parte forse più rilevante è proprio il FFO. Questo è sostanzialmente l’investimento che fa lo Stato sui giovani per portarli alla laurea, nell’ottica in cui ciascun laureato costituisce un arricchimento per l’intero Paese. Anche per questo, in Italia, il gettito derivante dalla tassazione studentesca non può superare il 20% del FFO. Ciò vuol dire che se il costo della laurea dovesse ricadere per intero sugli studenti, le tasse universitarie aumenterebbero circa di un fattore cinque, avvicinandosi quindi quasi i 10.000 euro per anno nel caso delle fasce più alte (sostanzialmente quello che è accaduto in Inghilterra qualche anno fa).

Ma come si assegna il FFO, cioè la parte più cospicua dei finanziamenti agli Atenei? A partire dal 2009 il FFO è distinto in quota “base”, assegnata su base storica, a cui si aggiunge una quota cosiddetta “premiale” (che come vedremo di premio ha ben poco). Dal 2014 la quota base viene ulteriormente divisa allocando il 20% (2014), il 25% (2015) ed il 28% (2016) sulla base di un modello di costo standard, rapportato al numero degli studenti (è ovvio che Atenei con più studenti necessitano di più risorse, in ogni campo, in ogni senso). Negli anni successivi l’incidenza del costo standard dovrebbe crescere fino a costituire il 100% della quota “base” nel 2018. Uno dei parametri è appunto il numero di studenti, ma “in corso”. Si tagliano dal conteggio gli studenti fuori-corso, come se questi non fossero un costo per gli Atenei. Allo stesso tempo, già nel 2012, il governo Monti aveva varato un decreto, poi convertito in Legge, che prevedeva la possibilità che il gettito della tasse studentesche potesse superare il 20%, proprio aumentando la tassazione per gli studenti fuori corso. Questa norma finora non è stata mai applicata, non essendo mai stati varati i decreti attuativi ministeriali. Il messaggio è chiaro: lo Stato non intende più prendersi carico degli studenti fuori corso (anche quelli al primo anno fuori corso che stanno semplicemente completando la tesi di laurea) e tende a scaricare questo costo o sugli Atenei oppure sugli studenti stessi, tra l’altro iniziando a mettere in discussione il tetto del 20% del FFO delle tasse universitarie.

 

La “questione meridionale”

All’interno del problema nazionale di riduzione dei finanziamenti alle Università, c’è una gravissima questione meridionale con spostamento di risorse dal Sud al Nord che si concretizza in diversi modi.

Uno dei meccanismi che sta determinando e determinerà sempre più questo spostamento di risorse è proprio l’assenza degli studenti fuori corso dal meccanismo del costo standard di assegnazione del FFO. Infatti tagliando dal conteggio tutti gli studenti fuori-corso si fa un danno, enorme nei confronti degli Atenei meridionali che, per una molteplicità di cause e ragioni (largamente indipendenti dalla qualità della ricerca e della didattica, si badi!), soffrono di più di questo fenomeno.

In un altro convegno (AA.VV. 2016b) il prof. Viesti (2016b) ha mostrato come considerando solo il 50% dei fuori corso nella applicazione del costo standard, tutti gli Atenei del Nord riceverebbero meno (in alcuni casi significativamente meno) di quanto non ricevano ora; e, per contro, tutti gli Atenei del Sud e delle Isole vedrebbero, in genere, significativamente aumentata a loro quota base di FFO, con punte di circa il 25% in più, ad esempio, per Cagliari e Catania.

Un ulteriore danno nei confronti degli Atenei meridionali deriva proprio dall’introduzione della cosiddetta quota “premiale” dell’FFO richiamata in precedenza. Dall’ammontare nazionale del FFO, una sua percentuale, progressivamente dal 7% al 25% dal 2009 al 2016, viene distribuito tra gli Atenei in base alla qualità della ricerca svolta. Quindi, tutti gli Atenei ricevono meno FFO, ma mentre alcuni potranno ridurre il danno attraverso la quota “premiale”, altri lo vedranno aumentato in quantità anche drammatiche. In questo modo si è verificato un graduale ma costante trasferimento di fondi dagli Atenei del Sud ad altri Atenei, in particolare di alcune zone del Nord. Se non ci saranno correttivi, gli effetti distorcenti di questo fenomeno subiranno un’ulteriore accelerazione: chi più ha, più avrà e continuerà ad avere; chi meno ha, continuerà ad avere sempre meno, fino al pericolo (concreto, in alcuni casi!) di chiusura! Non c’è alcun premio quindi, ma solo un “pensiero unico” non palesato né al Paese né tantomeno al Parlamento che, utilizzando una “finta” retorica del merito, mira, a creare in Italia poche Università di eccellenza, tutte concentrate nel Nord, di fatto desertificando il Meridione e parte del Centro da cultura e saperi.

 

La valutazione

Il recente studio della Fondazione RES curato dal prof. Viesti (2016a) dimostra come, a fronte della compressione nazionale dei finanziamenti, il processo di valutazione, che determina la quota “premiale”, così come è strutturato, non attiva meccanismi di riequilibrio ma accrescere i divari. Lo strumento “premiale” è, quindi, uno strumento punitivo soprattutto delle Università della parte più debole del Paese. La VQR così com’è innesca una competizione non virtuosa sia all’interno degli Atenei, tra settori forti e meno forti, sia a livello nazionale tra Atenei. Atenei che devono lottare gli uni contro gli altri per dividersi una torta sempre più piccola, mentre il Governo elargisce finanziamenti milionari a enti di ricerca non pubblici.

Ma chi ha il compito di valutare la qualità della ricerca svolta dagli Atenei? Il compito è affidato all’Agenzia per la valutazione della Qualità della Ricerca (ANVUR) istituita ai sensi dell’art.2, comma 138, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 e i cui componenti il consiglio direttivo dell’ANVUR sono docenti non eletti, bensì nominati dal Governo. La elettività non è sempre garanzia di rappresentatività, ma nel caso dell’ANVUR manca persino questo flebile presidio di democrazia. Questa agenzia, che non ha eguali in Europa per vastità delle competenze che le sono attribuite, ha inoltre cominciato ad esercitare un ruolo di indirizzo prettamente politico, costruendo un sistema di valutazione quanto meno discutibile sia sotto il profilo del metodo che dei suoi utilizzi.

I criteri adottati per la valutazione sono astrusi, comunicati e modificati alla spicciolata e sovente affetti da errori scientifici che professori e ricercatori, in qualità di studiosi, non dovrebbero avallare. Infine, ma soprattutto, affetti dal vizio di “inversione temporale” tra produzione scientifica e formulazione dei criteri, ovvero i criteri di valutazione vengono definiti a posteriori.

Nel 2012, nella valutazione dell’attività delle strutture di ricerca, dipartimenti e atenei (periodo di riferimento: 2004-2010), si è ad esempio deciso di attribuire un punteggio di “-1” per ogni professore o ricercatore “inattivo”, cioè che in quegli anni non avesse prodotto e reso noto, attraverso articoli, relazioni, comunicazioni, saggi, ecc., alcun “risultato” scientifico. Il numero degli inattivi risultò molto basso, circa il 3%, ma comunque la loro presenza può determinare un danno economico in termini di FFO significativo per la struttura di appartenenza. Ovviamente i dipartimenti negli anni successivi hanno cercato di eliminare o limitare questa “criticità” in funzione anche della successiva valutazione. Nella valutazione 2011-2014, che si sta effettuando in questi mesi, ai ricercatori inattivi, decisione del 2015, è attribuito un punteggio di “0”, lo stesso attribuito a ricercatori e professori “attivi”, ma i cui “risultati” sono giudicati “non soddisfacenti”. Un cambiamento di criterio stabilito e reso noto solo alla fine del periodo sottoposto a valutazione.

Altro esempio riguarda un parametro per valutare la qualità della didattica: nel 2011/2012 venne stabilito che per il periodo 2004-2010 gli Atenei sarebbero stati valutati, tra l’altro, sul tasso di “abbandoni” da parte degli studenti tra 1° e 2° anno (alto, in genere, ma altissimo per corsi di studio scientifici e tecnologici). Anche in questo caso, alcune strutture sono intervenute, dopo il 2012, per “aiutare” gli studenti più in difficoltà, con un certo impegno anche finanziario. Ma nel 2015 si è fatto sapere che il tasso di abbandoni tra 1° e 2° anno non sarebbe più stato un parametro utilizzato per la valutazione degli anni 2011-2014.

 

Il diritto allo studio

Un altro importante e drammatico capitolo è quello del diritto allo studio, che prevede l’erogazione a studenti iscritti alle Università di benefici quali borse di studio, alloggi, mense ed altri servizi per garantire, così come previsto dall’art. 34 della Costituzione Italiana, ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Globalmente considerati questi studenti ammontano all’11% di tutti gli iscritti con una distribuzione regionale diversa (in regioni come Calabria e Sicilia la percentuale arriva al 18% mentre in Lombardia e Piemonte la percentuale è del 6-8%).

Ne ha ampiamente discusso il prof. Pujia (2016) nel citato convegno del 16 giugno. Se si focalizza l’attenzione sulle borse di studio, i finanziamenti arrivano dalle tasse studentesche, dal cosiddetto FIS (Fondo Integrativo Statale) governativo e da altri finanziamenti delle singole Regioni. Il FIS, da assegnarsi ai vari Atenei delle varie Regioni, a sua volta tiene conto per il 50% della spesa destinata a borse di studio da parte della Regione; per il 15% del numero di posti letto presenti nella Regione per gli studenti; per il 35% del numero di studenti idonei al ricevimento della borsa. Evidentemente, l’unico parametro che ha senso è il numero di idonei. Gli altri parametri fanno sì che, ancora una volta, il FIS “premi” chi già ha di più. E non solo, perché questa sarebbe la “ripartizione” teorica del FIS. Pesa anche il fatto che l’eventuale riduzione delle risorse proprie destinate dalle Regioni alla concessione di borse di studio, rispetto all’anno accademico precedente, comporta una riduzione di pari importo della quota attribuibile nel riparto. Le eventuali somme derivanti da tali riduzioni, infatti, sono ripartite tra le altre Regioni, con il risultato che se una Regione non decrementa il proprio impegno, si vedrà ricompensata con milioni di euro, derivanti dal mancato finanziamento di Regioni che invece hanno deciso (costrette per scelta o per qualsivoglia motivo) di ridurre la loro partecipazione.

Per il 2014/2015, ciò fa sì che l’effettiva erogazione delle borse coinvolga solo il 75% circa degli aventi diritto: 46.000 studenti aventi diritto non percepiscono la borsa nonostante l’art.34 della Costituzione. Di questi ben il 76% sono iscritti a università meridionali.

Le ragioni della complessiva inadeguatezza e soprattutto della pesante differenza tra aree geografiche sono da ricondurre a: un complessivo sottofinanziamento ed un sempre maggiore disimpegno dello Stato nel sostenere questo diritto costituzionale; una differenza importante tra le quote garantite dalle Regioni (si va da Regioni che coprono il 7% della spesa complessiva a Regioni che ne coprono il 53%); criteri di ripartizione che non prevedono alcun meccanismo perequativo.

Ad esempio, nel 2014 la Campania ha perso circa 3.400.000 euro, la Lombardia ha “guadagnato” circa 2.500.000 euro. È da notare che il numero di idonei in Lombardia è di 15.774 studenti (il 6% circa degli iscritti), in Campania il numero di idonei è praticamente lo stesso, 15.781 (pari a circa il 9% degli iscritti): la Lombardia per erogare le sue borse ha a disposizione circa 27.200.000 euro in più rispetto alla Campania, con lo stesso numero di idonei.
Tabella 2
Come al solito dipende tutto dai parametri che si scelgono. È stata fatta una simulazione considerando, come unico parametro, corretto, per la assegnazione del FIS, il solo numero di idonei e, sempre per fare il solo esempio della Campania, il FIS sarebbe di circa 13.745.000 euro, invece di 2.243.680. E tutte le regioni del Sud e le Isole, nel complesso, riceverebbero circa 25.000.000 di euro in più.

 

Le retribuzioni del personale

Un altro capitolo, non meno importante di cui tenere conto è quello relativo al blocco dei contratti per i dipendenti pubblici, e della progressione economica per i dipendenti pubblici non contrattualizzati.

Nel 2010 il governo Berlusconi blocca gli stipendi per tutti i dipendenti pubblici per tre anni (2011-2012-2013) (DL n. 78/2010 Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività̀ economica, poi convertito dalla legge n. 122/2010). Nel 2013 il governo Letta prolunga il blocco per l’anno 2014. Dal blocco però vengono progressivamente esclusi: dipendenti di organi costituzionali (es. Camera, Senato, C. Costituzionale); Magistrati (sentenza CC 223/2012); avvocati dello stato (equiparati ai Magistrati); insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado (per errore del MIUR, ad un gruppo di insegnanti, errore ovviamente e giustamente mai più “corretto”, e quindi “beneficio” esteso poi a tutti); membri delle forze armate e forze dell’ordine; medici delle aziende sanitarie; personale delle carriere prefettizia e diplomatica; personale contrattualizzato della pubblica amministrazione (sentenza CC 178/2015).

E per i professori e ricercatori universitari? Con la legge di stabilità 2016 Il blocco è rimosso solo con decorrenza 1/1/2016. Il quinquennio lavorativo 2011-2015 non è però riconosciuto a fini giuridici e quindi niente adeguamento stipendiale a partire dal 2016, niente effetti su pensioni e TFR.

La rivendicazione economico/salariale dei docenti universitari è assolutamente sacrosanta, non c’è nulla di vergognoso nel reclamare il diritto al trattamento economico che spetta loro. I docenti hanno partecipato, insieme con tanti altri lavoratori del pubblico impiego, allo sforzo che lo Stato ha richiesto in un momento di crisi, ma ora non si può più accettare che in aggiunta a tale sforzo venga inflitto un ulteriore sacrificio che, essendo diretto solo ai professori e ricercatori universitari, non si configura più come un concorrere al benessere collettivo ma come un trattamento iniquo e discriminatorio che è profondamente lesivo delle condizioni di vita presenti e delle prospettive future di tali categorie, poiché il mancato riconoscimento giuridico del quinquennio fa sì che il blocco si riverberi su tutta la vita professionale e oltre, avendo pesanti effetti (specie per i più giovani) anche sulla pensione.

 

Conclusioni

In conclusione, quello che solo apparentemente sembra essere un insieme raffazzonato, senza connessioni, estemporaneo di politiche e provvedimenti sembra nascondere un chiaro disegno: creare una sorta di piccolo nucleo di Atenei e centri di eccellenza (tutti nel Nord Italia) e abbandonare a se stessi gli Atenei del Sud (arrivando in qualche caso fino alla chiusura, come, con … coraggio – dovuto alla certezza di … impunità – hanno affermato nel recente passato alcuni dirigenti Anvur), Tutto ciò coltivando erroneamente l’idea che il Paese possa migliorare e crescere se ci sono punte di eccellenza, concentrate in alcune zone.

La strada da percorrere è invece completamente diversa: finanziare e favorire una buona qualità e competenza diffusa su tutto il territorio nazionale, che, peraltro già c’è: Milano cresce e va bene non se le Università milanesi – o al limite lombarde – sono buone, ma se sono buone le Università dell’intero Paese.

I soldi ci sono. Infatti, si è lungamente discusso della proposta di stanziare 1.500 M€ (in dieci anni) per la realizzazione dello Human Technopole, gestiti dall’ Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), un istituto di diritto privato, la cui gestione, i cui criteri di reclutamento e di utilizzo dei fondi e di produttività sono opachi anzi, del tutto oscuri, e non sono sottoposti ad alcuno dei controlli cui sono sottoposti Atenei ed Enti di Ricerca.

Una proposta potrebbe essere, per il finanziamento alle sole Università, di arrivare almeno ad una percentuale di PIL intorno allo 0,7-0,75%, come la Spagna: in cifra assoluta bisogna passare dai circa 6.500 M€ ad almeno 10.500 M€: 8.000 M€ (comprensivi degli stipendi) dovrebbero essere utilizzati per la “didattica” (minimo indispensabile secondo stime attendibili); i restanti 2.500 M€ per la ricerca. E ridare dignità e autorevolezza nazionale alla istruzione terziaria e alla ricerca, veri motori di rinascita e sviluppo del Paese.

Giuliano Laccetti, Università di Napoli Federico II

Carmela Cappelli, Università di Napoli Federico II

Davide De Caro, Università di Napoli Federico II

Fabio Murena, Università di Napoli Federico II

 

Bibliografia

AA.VV. (2016a), Mind the Gap, 24 giugno 2016, http://www.gruppo2003.org/node/61.

AA.VV. (2016b), Questione universitaria e questione meridionale, Napoli, 16 giugno 2016, http://www.cipur.it/Convegno%20Napoli16Giu16/Convegno%20Napoli%2016giu16.html

Carra L. (2016), I numeri della Ricerca, Mind the Gap, Milano, 24 giugno 2016, http://www.scienzainrete.it/files/mindthegap_20160624_carra.pdf

Parisi G. (2016), Governments: Balance research funds across Europe, Nature, 530 – 33, http://www.nature.com/nature/journal/v530/n7588/full/530033d.html

Porta F., Cattaneo M., Donina D., Meoli M. (2015), Il finanziamento dei sistemi universitari in cinque paesi europei: uno studio comparativo, Scuola democratica, 1, 103-122, http://www.scuolademocratica.it/

Pujia A. (2016), Il divario Nord-Sud nel Diritto allo Studio, Questione universitaria e questione meridionale, Napoli, 16 giugno 2016, http://www.cipur.it/Convegno%20Napoli16Giu16/04_PUJIA%20presentazione%20Il%20Divario%20Nord-Sud%20Nel%20Diritto%20Allo%20Studio.pdf

Viesti G. (2016a), Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Roma:Donzelli, 2016

Viesti G. (2016b), Università in declino, Questione universitaria e questione meridionale, Napoli, 16 giugno 2016, http://www.cipur.it/Convegno%20Napoli16Giu16/Viesti.pdf

 

[1] https://www.change.org/p/salviamo-la-ricerca-italiana

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