di: Filomena Maggino e Leonardo Salvatore Alaimo
EyesReg, Vol.10, N.4, Luglio 2020. Numero Speciale: “Nuovi orizzonti di ricerca per le Scienze Regionali”
Introduzione
“Se non abbiamo mai misurato qualcosa, non sappiamo molto su di essa” (Karl Pearson). Abbiamo voluto iniziare questo lavoro dedicato alla misurazione nelle scienze sociali – e in particolare a quella dello sviluppo sostenibile – con questa frase, attribuita a Pearson (Upgren, 2008), per sottolineare l’importanza che la misura ricopre nel processo di acquisizione di conoscenza. Quello della misurazione è un argomento spesso ignorato e considerato residuale rispetto ad altri, nonostante il ruolo fondamentale che ricopre nella conoscenza della realtà che ci circonda.
Misurare il sociale: la sfida della complessità
La conoscenza scientifica si sviluppa attraverso un dialogo fra logica e evidenza, attraverso due livelli di analisi scientifica, collegati tra loro anche se analiticamente distinti(Maggino, 2004):
- un livello teorico-formale, in cui si sviluppano teorie e ipotesi e si specificano concetti astratti con le loro reciproche relazioni;
- un livello empirico, in cui le ipotesi sono verificate attraverso dati empirici.
È quindi il risultato di una complessa interazione tra teoria e osservazioni, rappresentate e realizzate attraverso la misurazione. Questa interazione è necessaria ed inevitabile.
Ogni osservazione valutata all’interno di un quadro teorico rappresenta un dato. Ogni osservazione empirica può essere utilizzata per generare tipi diversi di dati, secondo diversi quadri teorici. Il quadro entro il quale ogni osservazione viene valutata è un sistema per confrontare un’osservazione con uno o più modelli. La relazione tra il modello e l’osservazione è il prodotto della misurazione. Possiamo definire la misurazione, usando le parole di Blalock (1982), come il “processo attraverso il quale numeri sono assegnati a oggetti in modo tale da comprendere le operazioni matematiche che possono essere legittimamente utilizzate”. Possiamo considerarla, quindi, una sorta di traduzione (Alaimo, 2020), uno spostamento dal piano della realtà in cui osserviamo i fenomeni al piano dei numeri in cui cerchiamo di codificarli. Questa traduzione deve essere significativa, cioè deve riprodurre nel modo più fedele possibile nel mondo dei numeri il fenomeno osservato nel piano della realtà. Allo stesso tempo, questa traduzione è necessaria per la conoscenza della realtà, che ci parla con il linguaggio dei numeri.
Ogni misura si realizza attraverso un processo, che consente la traduzione empirica della teoria, la cosiddetta operativizzazione. Come sottolineato da Lazarsfeld (1958: 100), “quando gli scienziati sociali usano il termine misurazione, lo fanno in un senso molto più ampio degli scienziati naturali”. Il processo di misurazione nelle scienze sociali ha un carattere peculiare, legato al fatto che ogni misura inizia con la definizione del fenomeno che intendiamo misurare. L’indagine dei diversi aspetti legati ai fenomeni sociali richiede la definizione di indicatori che rappresentino ciò che viene effettivamente misurato con riferimento alla dimensione corrispondente (Maggino, 2017). Nelle scienze sociali, il processo di misurazione è associato allo sviluppo di indicatori. Quest’ultimo è un esercizio normativo per definizione, poiché:
- gli indicatori sono legati ad una definizione concettuale del fenomeno;
- un fenomeno può essere definito in modi diversi.
Di conseguenza, per descrivere un fenomeno, diversi gruppi di indicatori possono essere selezionati. La natura normativa della selezione degli indicatori è un aspetto di quella componente soggettiva coinvolta in qualsiasi processo di misurazione e che non può essere eliminata. La definizione del fenomeno è soggettiva: la descrizione della realtà dipende sempre dal punto di vista del ricercatore. I quadri concettuali rappresentano delle piccole finestre attraverso le quali solo alcuni aspetti della realtà possono essere osservati. La definizione delle ipotesi sulla realtà è pervasa dalla soggettività: i ricercatori, attraverso il dialogo con l’ipotesi di lavoro, possono cambiare prospettiva in un percorso di conoscenza in continua evoluzione.
Questo processo non può essere considerato arbitrario, poiché comporta sempre un rapporto con la realtà. Data la complessità di tale realtà, possiamo considerare i dati come un testo frammentato, che il ricercatore deve leggere alla ricerca di un senso. Questa strutturazione di senso non è un processo arbitrario, ma necessariamente coinvolge la soggettività (Maggino, 2017).
La complessità e la collegata multidimensionalità dei fenomeni sociali rendono necessario l’utilizzo di uno strumento altrettanto complesso che sia in grado di cogliere i diversi aspetti della realtà che si intende misurare. Lo strumento che permette di fare ciò è il sistema di indicatori, un insieme interconnesso che ha l’obiettivo di misurare uno specifico fenomeno oggetto di studio e che è il risultato dell’applicazione di una serie di fasi, che prendono il nome di disegno gerarchico (Maggino, 2017). La corretta analisi e la comprensione dell’informazione che un sistema di indicatori porta con sé richiede l’adozione di un approccio sintetico o sistemico, che ci permette di comprendere i fenomeni nel loro insieme, come un tutto.
Il concetto di sviluppo sostenibile: origini e sviluppi
Il concetto di sviluppo sostenibile è al centro del dibattito scientifico e istituzionale ormai da più di trent’anni e la sua rilevanza è aumentata di pari passo alla sempre maggiore importanza assunta dalle tematiche ambientaliste. Nonostante la sua popolarità, si tratta di un concetto di difficile definizione, a cui è quindi difficile assegnare un significato univoco. Molti studiosi ne hanno ricostruita l’evoluzione (La Camera, 2005; Gibson et al., 2005; Elliott, 2013; Alaimo e Maggino, 2020), che è collegata al dibattito internazionale su questo tema. La definizione probabilmente più nota di sviluppo sostenibile è contenuta nel rapporto della cosiddetta Commissione Bruntland, Our Common Future: “lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che permette il soddisfacimento delle esigenze delle generazioni attuali, senza compromettere la possibilità di quelle future di soddisfare le loro esigenze” (1). La definizione enfatizza l’aspetto intergenerazionale dello sviluppo sostenibile: è un processo di cambiamento in cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e il cambiamento istituzionale sono tutti in armonia, così da permettere il soddisfacimento delle esigenze delle generazioni attuali e future. Questa definizioneevidenzia una delle caratteristiche principali dello sviluppo sostenibile, la necessità di perseguire il benessere delle attuali generazioni e al contempo garantirlo per quelle future. Il modo per raggiungere quest’obiettivo è concepire lo sviluppo sostenibile come un concetto multidimensionale,che tenga conto degli aspetti economici, sociali e ambientali. Oggi, la definizione si concentra su quest’approccio olistico che collega lo sviluppo economico, l’inclusione sociale e la sostenibilità ambientale (Sachs, 2015). La stabilità a lungo termine della società è raggiungibile solo attraverso l’integrazione di questi tre pilastri.
Come detto in precedenza, il punto di partenza di ogni processo di misurazione nelle scienze sociali è la definizione del fenomeno e ogni definizione è intrisa di soggettività. Anche in questo caso. Sin dalla pubblicazione del rapporto della Commissione Brundtland, il concetto di sviluppo sostenibile è stato fortemente criticato, soprattutto perché sembra troppo confuso e contraddittorio per essere utile nella pratica (Gibson et al., 2005). Alcuni studiosi rifiutano l’idea stessa che possa esistere un simile tipo di sviluppo. Latouche, per esempio, critica questo concetto, definendolo una mistificazione (Latouche, 2009). Lo definisce un ossimoro, sottolineando che l’unico sviluppo che conosciamo è quello derivante dalla rivoluzione industriale: una guerra economica tra gli uomini e contro la natura. Non ha senso definire lo sviluppo come sostenibile, perché è contro la sua stessa natura. In letteratura, poi, non c’è consenso sul framework a tre pilastri. Alcuni ricercatori si concentrano sul ruolo, sul peso da dare a ciascuna dimensione e sulle loro relazioni reciproche. I tre pilastri (economico, sociale e ambientale) sono uno di questi, ma molti altri sono possibili. Turner et al. (1993), per esempio, suggeriscono che i vari approcci e definizioni differiscono tra loro perché sono legati a due prospettive opposte, rispettivamente etichettate come sostenibilità forte e debole. Altri ricercatori hanno anche criticato la struttura a tre vie, sottolineando che i pilastri che stanno alla base dello sviluppo sostenibile sono più di tre (per una analisi delle principali teorie, si veda Alaimo e Maggino, 2020).
La definizione della Commissione Brundtland è certamente suggestiva, ma è difficile renderla operativa. Il framework a tre pilastri si basa su una visione antropocentrica, secondo la quale, per essere sostenibile, lo sviluppo deve garantire la soddisfazione dei bisogni delle generazioni presenti e future fissando obiettivi misurabili. Il raggiungimento dello sviluppo sostenibile implica quindi anche un approccio normativo. I governi devono adottare politiche appropriate per aumentare il benessere attuale senza ridurre quello delle generazioni future. L’individuazione di un insieme di obiettivi e la predisposizione di un quadro di indicatori sono indubbiamente utili per attuare e valutare le politiche e le azioni. La Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 2012, nota anche come Rio+20 Summit, ha individuato una serie di principi che dovrebbero ispirare la definizione e la scelta degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Nei tre anni successivi al summit di Rio si sviluppò un intenso dibattito, che coinvolse governi, società civile e stakeholder in tutto il mondo e che ha portato all’adozione della cosiddetta Agenda 2030 al vertice delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile tenutosi a New York nel settembre 2015. I Sustainable Development Goals – SDGs sono parte integrante dell’Agenda 2030: si tratta di un set di 17 goals e 169 targets, appartenenti ai tre pilastri dello sviluppo sostenibile, definiti secondo i principi dettati nel Rio+20 Summit. Nonostante la loro natura universale, va tuttavia osservato che non tutti gli obiettivi sono applicabili a tutti i Paesi allo stesso modo, come chiaramente indicato nell’Agenda 2030. “Gli obiettivi sono definiti come ispiratori e globali e ciascun governo stabilisce i propri obiettivi nazionali in funzione del livello globale di ambizione, ma tenendo conto delle circostanze nazionali” (United Nations Division for Sustainable Development, 2015, 13). Per questo motivo è essenziale identificare un quadro globale di indicatori, per conoscere e monitorare la situazione di ogni Paese rispetto a ciascun goal e target, così da essere in grado di pianificare e attuare azioni che tengano conto dei punti di forza e di debolezza delle diverse realtà nazionali. Il framework globale degli indicatori è stato elaborato dall’Inter-Agency and Expert Group on SDG Indicators (IAEG-SDG) e adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 6 luglio 2017; comprende 244 indicatori, suddivisi tra i 17 goals e 169 targets.
La regionalizzazione del principio dello sviluppo sostenibile
Secondo quanto stabilito nell’Agenda 2030, i dati devono essere raccolti e comunicati anche a livello subnazionale: ogni governo deve sviluppare indicatori, a livello nazionale e regionale, che completino il quadro globale, prestando attenzione al territorio. È quindi fondamentale nel processo di definizione delle politiche e delle azioni volte al raggiungimento dello sviluppo sostenibile tenere conto non solo delle specificità nazionali, ma anche e soprattutto di quelle subnazionali. La realizzazione dell’Agenda 21 a livello locale non è ancora giuridicamente vincolante, anche se alla fine del 2000 molti Paesi avevano politiche e quadri di riferimento per lo sviluppo sostenibile a livello locale e regionale (Blewitt, 2012). È necessario agire a livello locale e pensare globalmente. L’importanza delle realtà subnazionali e locali per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile è certamente un tema centrale della ricerca in questo campo. La regionalizzazione del quadro degli indicatori e l’introduzione di sistemi di valutazione dello sviluppo sostenibile a livello locale può essere considerata una ricerca all’avanguardia in questo campo, come dimostrato da diverse analisi condotte con riferimento a territori di diversi paesi (Devuyst, 2000; Aki e Akihisa, 2007; Hartmuth et al., 2008; Moreno Pires et al., 2014; Hatakeyama, 2018; Alaimo 2019, Alaimo e Maggino, 2020; Alaimo et al., 2020a). La conclusione comune a tutti i differenti studi è che lo sviluppo sostenibile non può essere considerato indipendentemente dal contesto locale. Obiettivi e traguardi, concepiti per tutte le nazioni, devono essere adattati alle realtà subnazionali e dobbiamo selezionare indicatori specifici per monitorarli.
La necessità di tener conto delle specificità subnazionali è ancora più importante per l‘Italia, un Paese storicamente caratterizzato da forti differenze regionali, la cui radicalizzazione è riassunta nel cosiddetto divario Nord-Sud. Anche se in letteratura esistono posizioni diverse sull‘origine del divario, è generalmente riconosciuto che la disparità di sviluppo, non solo economico, tra il nord e il sud del Paese si è accentuata sin dall‘unificazione e nel corso della storia italiana. Il Titolo Quinto della Costituzione della Repubblica Italiana riconosce e regola gli enti subnazionali. Particolare importanza ricoprono le Regioni, enti locali con potere legislativo e, quindi, con l‘autorità e gli strumenti per definire le politiche. A seguito della riforma costituzionale del 2001, il potere legislativo generale in Italia appartiene allo Stato e alle Regioni, poste sullo stesso piano. In base all’art. 117 della Costituzione italiana, la competenza legislativa è ripartita per materia. In alcune materie la competenza è esclusiva dello Stato (ad esempio, politica estera, forze armate, immigrazione); in altre è concorrente[ (2) (ad esempio, salute, istruzione, protezione e sicurezza sul lavoro); infine, le Regioni hanno il potere legislativo con riferimento a qualsiasi materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (competenza residuale o esclusiva). Va inoltre ricordato che cinque Regioni italiane (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia) sono Regioni autonome a statuto speciale. È evidente, quindi, che non si può prescindere dall’analisi della situazione delle regioni e dal loro diretto coinvolgimento nella definizione delle strategie e delle azioni. Esaminare e monitorare la situazione italiana per quanto riguarda il raggiungimento degli SDGs non può quindi prescindere dall’analisi territoriale, e in particolare regionale. In questo modo, è possibile evidenziare potenziali differenze o omogeneità territoriali. Una simile analisi necessita di un duplice sforzo. Da un lato, si ha la necessità di regionalizzare il quadro degli indicatori nazionali, prevedendone e includendone altri che permettano di tener conto e di misurare le specificità dei territori. Dall’altro lato, si rendono necessari strumenti e metodi in grado di sintetizzare i sistemi di indicatori così creati, generando un’informazione che sia una stilizzazione e non una iper-semplificazione della realtà.
La misurazione dello sviluppo sostenibile: aspetti concettuali e metodologici
Misurare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile tenendo in considerazione le specificità territoriali è una necessità che pone di fronte il ricercatore a riflessioni sia concettuali che metodologiche. L’Italia è, da questo punto di vista, un’eccellenza nel panorama internazionale per disponibilità e comparabilità di dati a livello regionale, provinciale e molte volte comunale. Il recente rapporto SDGs 2020 (Istat, 2020) fornisce un quadro dettagliato di indicatori a livello regionale utili per la misurazione dello sviluppo sostenibile. Tuttavia, se la disponibilità di dati sembra non costituire un problema, la questione concettuale più importante da affrontare è stabilire se gli SDGs possano essere considerati un sistema di indicatori. Seguendo il modello classico di Lazarsfeld (1958), gli indicatori dovrebbero essere sviluppati attraverso un disegno gerarchico, che richiede la definizione di diverse componenti:
1. il fenomeno e i suoi aspetti generali;
2. le variabili e i loro (possibili) domini, che rappresentano ogni aspetto, che permette di specificare il fenomeno;
3. gli indicatori di base, che rappresentano ciò che viene effettivamente misurato per indagare ogni variabile e i suoi domini. In altre parole, “l’indicatore è ciò che mette in relazione i concetti con la realtà” (Maggino 2017).
La corretta applicazione del disegno gerarchico permette di definire un sistema di indicatori, una struttura complessa in cui “ogni indicatore misura e rappresenta un distinto costituente del fenomeno definito” (Maggino, 2017: 98). Nessun indicatore può essere considerato separatamente dagli altri. Ognuno di essi è rilevante, ma la caratteristica più importante di un sistema è la relazione tra gli indicatori. Dobbiamo quindi chiederci cosa rappresentano gli SDGs. Nella loro definizione generale, e nella loro ulteriore specificazione in obiettivi, i 17 obiettivi sono un mix che include indicatori di input di output e di outcome (Kanbur et al., 2018). I 17 obiettivi non possono essere considerati un sistema di indicatori. Essi rappresentano cose diverse:
– settori (vita sotto l’acqua, vita sulla terra, industria e infrastrutture);
– questioni concettuali (uguaglianza di genere, buona salute e benessere);
– obiettivi (no povertà, no fame).
Il modo più corretto di concepire gli SDGs è considerarli come “campanelli d’allarme” (Alaimo e Maggino, 2020), che si riferiscono a sistemi di indicatori (reali o ideali). In altre parole, sembrano essere estrapolati da un sistema, poiché fanno risaltare situazioni particolarmente gravi, sollecitando politiche ad hoc.
Poiché gli SDGs non costituiscono un sistema, non è concettualmente corretto definire una misura sintetica unica per lo sviluppo sostenibile. Creare una sintesi in questo contesto può essere significativo solo per fare un confronto in termini di tempo e spazio, con una funzione di analisi e monitoraggio, utile per definire azioni dirette e specifiche.
Dal punto di vista metodologico, l’analisi del sistema di indicatori di sviluppo sostenibile si inserisce all’interno del più generale tema della sintesi dei sistemi multi-indicatore. Recenti lavori scientifici hanno evidenziato come il tradizionale e ad oggi dominante approccio aggregativo (3) comporti problematiche soprattutto nell’interpretazione del fenomeno misurato. Difficoltà che si colgono anche con riferimento agli indicatori regionali aggregati di sviluppo sostenibile elaborati per l’Italia (Alaimo, 2019; Alaimo e Maggino, 2020), sottolineando la tendenza un vero e proprio appiattimento delle differenze. L’alternativa è stata trovata nell’adozione di un approccio non aggregativo e in particolare nella teoria degli ordinamenti parziali (poset) (4). Proprio lo sviluppo sostenibile è uno dei campi in cui per la prima volta è stato applicato questo approccio a sistemi di indicatori cardinali e con un riferimento specifico al caso italiano (Alaimo, 2020; Alaimo et al., 2020b) che ha mostrato distanze marcate tra i territori.
Filomena Maggino, La Sapienza Università di Roma, Prisma Srl
Leonardo Salvatore Alaimo, Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT)
Bibliografia
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Note
(1) “Sustainable development is development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs” (WCED 1987, 41).
(2) Le Regioni hanno il potere legislativo, eccetto per la determinazione dei principi fondamentali nella materia, riservata allo Stato.
(3) Non si approfondiranno in questo lavoro gli aspetti metodologici dei diversi approcci alla sintesi, rimandando a altre pubblicazioni citate per un approfondimento.
(4) Per un approfondimento sull’approccio alla sintesi attraverso i poset, si veda Fattore (2017).