di: Paolo Rizzi
EyesReg, Vol. 11, N. 3, Maggio 2021
La forza diffusiva dell’epidemia da Covid-19 ha provocato una crisi sanitaria ed economica di dimensioni impressionanti, e soprattutto ci ha costretto a rivedere alcune certezze che lo sviluppo mondiale degli ultimi cinquanta anni aveva consolidato sia nella percezione collettiva che nelle analisi delle scienze sociali in particolare in quelle regionali. Già prima della pandemia le valutazioni sulla globalizzazione in corso negli ultimi decenni erano accese e contrastanti. Le forze centrifughe che hanno portato all’enorme incremento degli scambi commerciali e dei flussi di capitali e persone, così come le questioni connesse alla perdita di sovranità dei singoli Stati nazionali a favore di organizzazioni e istituzioni di scala sovranazionale (Onu, Ue, Wto) si sono contrapposte ad una simmetrica evoluzione di forze centripete verso il locale e il territorio (Rizzi et. al. 2018b). Di qui l’espansione di fenomeni di populismo e sovranismo a livello politico, la tendenza verso nuove forme di protezionismo commerciale accentuate dall’amministrazione Trump, la triste costruzione di muri e barriere per impedire che i flussi migratori rompessero i difficili equilibri sociali dei paesi occidentali. Tanto che alcuni analisti avevano iniziato a parlare di “de-globalizzazione” anche per sottolineare le conseguenze negative della totale apertura del commercio e dei flussi di capitali in termini di incremento delle disuguaglianze non solo tra paesi ma soprattutto all’interno dei singoli territori. In questo quadro il coronavirus ha definitivamente indebolito la visione tutta positiva dei benefici della globalizzazione e riportato al centro dell’agenda politica la necessità di salvaguardare l’autosufficienza dei paesi, se non delle regioni, in termini di presidi sanitari, assetti produttivi, dotazioni di servizi e infrastrutture. Ancora più profondo il ripensamento relativo ai concetti di vulnerabilità e resilienza (Graziano e Rizzi 2020), che si sono allargati alle diverse dimensioni della sostenibilità (economia, società e ambiente), anche per le evidenze empiriche del legame tra contagi epidemici e inquinamento o apertura commerciale (Musolino e Rizzi 2020). A livello di pensiero e ricerca, le scienze sociali ed in particolare gli studi regionali si trovano così a riformulare alcuni assunti che hanno fondato i percorsi di analisi tradizionali: l’allargamento del concetto di capitale, la ridefinizione degli obiettivi dello sviluppo, l’introduzione di una nuova nozione di equilibrio.
L’allargamento del concetto di capitale
Le scienze economiche e sociali hanno da tempo allargato le modalità di considerare il “capitale”, che da semplice dotazione fisica, tecnica e finanziaria si è allargato verso nuove nozioni di capitale sociale, capitale creativo e capitale istituzionale (Rizzi 2021).
Il primo concetto serve a leggere e decodificare le relazioni di cooperazione e di legame (bond o bridge) che mettono in rete persone, imprenditori, pubblici amministratori. Non si tratta solo dell’atmosfera industriale marshalliana, ma più in profondità la propensione valoriale all’impresa, alla solidarietà, alla condivisione collettiva di obiettivi e azioni. Il concetto di classe creativa sottolinea invece la rilevanza assoluta nei percorsi evolutivi di un territorio di alcuni “talenti” capaci di stimolare innovazioni produttive e organizzative, siano essi attivi nel mercato come nell’amministrazione pubblica o nell’economia civile del non profit e dell’associazionismo. Ancora, il capitale istituzionale diventa fattore essenziale per creare le condizioni per il libero dispiegarsi degli animal spirits keynesiani e in generale favorire tensioni positive alla cooperazione, alla visione collettiva condivisa (Acemoglu e Robinson 2013). In un tentativo di sintetizzare questo progressivo allargamento del concetto di capitale, è stata introdotta la nozione di “capitale territoriale” per catturare la multidimensionalità dei beni materiali e immateriali dei sistemi regionali e locali (Camagni) che devono essere considerati, misurati e promossi per garantire sviluppo equo e sostenibile.
La ridefinizione degli obiettivi dello sviluppo
Il cambio radicale di paradigma è quello relativo al concetto stesso di sviluppo ed il passaggio necessario dal modello della competitività “antagonista” che fonda l’azione umana sulle motivazioni individualistiche dell’homo oeconomicus, al modello dello sviluppo sostenibile, che tiene conto anche degli aspetti di natura sociale e ambientale che contribuiscono a determinare il livello di benessere degli individui su scala locale (Rizzi 2019).
Sul fronte della competitività sostenibile, nuovi approcci multidimensionali sono stati proposti a livello internazionale con l’Indice di Sviluppo Umano dell’Onu e la Better Life Initiative dell’Ocse, mentre in Italia è ormai consolidata l’esperienza e l’innovativo percorso del BES (Rizzi et. al. 2015). Fortunatamente, il percorso verso queste nuove concezioni è oggi tracciato, anche a livello politico e istituzionale (Giovannini 2018), con un lungo processo evolutivo che passa dal rapporto della Commissione Brundtland del 1987, in cui si definisce in modo condiviso cosa si intende per sviluppo sostenibile, all’Agenda 2030 dell’ONU del 2015. Quest’ultima rappresenta un traguardo importante perché sono definiti i nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile (17 Sustainable Development Goals e 169 indicatori target) che devono guidare le strategie e le politiche dei singoli paesi e della comunità internazionale. Per la prima volta si evidenzia un passaggio significativo da obiettivi puramente economici e materiali, a dimensioni ecologiche (obiettivi 6, 7, 12, 13, 14, 15) e relazionali (obiettivi 3, 5, 11, 16 e 17).
Si tratta di un cambiamento epocale che interessa anche le scienze regionali. Non a caso accanto alla Strategia nazionale per lo Sviluppo Sostenibile (SNSvS), le regioni italiane sono chiamate oggi a tradurre l’Agenda Onu in percorsi e processi su scala territoriale (ad oggi Veneto e Lombardia hanno approvato i propri piani regionali). Questo nuovo sforzo di carattere metodologico (definizione di strategie, obiettivi, indicatori, metodi di monitoraggio) determina un nuovo ruolo per gli scienziati regionali, che proprio sull’interdisciplinarietà e sull’approccio olistico fondano il proprio statuto epistemologico (Rota 2020). Siamo di fronte ad un’operazione culturale e scientifica importante: nell’ambito delle scienze economiche, la classica variabile-obiettivo del Pil procapite o della sua crescita deve essere sostituita o almeno affiancata da nuove variabili dipendenti. In altre parole, il cambio di paradigma oggi in gioco non riguarda solo la maggiore enfasi ad input e determinanti dello sviluppo più equilibrate e multidimensionali, ma soprattutto la sostituzione degli obiettivi collettivi, da dimensioni puramente economiche (reddito, produzione, occupazione) o sociali (equità distributiva, contenimento della povertà) o ambientali (difesa della biodiversità, riduzione dei consumi, promozione delle energie rinnovabili), verso nuovi indicatori di benessere complessivo, quali la soddisfazione di vita o la felicità soggettiva (Graziano et. al. 2019). I nuovi studi sull’economia della felicità tra l’altro sono stimolati da una vera e propria “scuola italiana” (Zamagni, Becchetti, Bruni, Maggino) che rimanda agli albori della scienza economica, quando gli illuministi italiani (Genovesi, Verri, Dragonetti) scrivevano di “felicità pubblica” prima che prevalesse il paradigma del self-interest anglosassone. Anche in questo approccio, che pone come variabile-obiettivo il subjective well-being, il territorio è importante, in particolare nelle sue articolazioni tra città e campagna, economie e diseconomie di urbanizzazione, densità demografica e spopolamento delle aree interne. Molti studi rilevano infatti che la qualità della vita delle aree suburbane, e addirittura in quelle rurali e montane, determini indici di life satisfaction più elevati rispetto alle aree metropolitane, grazie ai migliori valori ambientali e soprattutto socio-relazionali. Tanto da aprire nuovi scenari di quella che oggi si può definire la nuova “economia comunitaria”, fondata su piccole imprese cooperative, enti non profit, società benefit, forme nuove di economia civile. Anche questa è una sorta di “ibridazione” delle organizzazioni dell’economia, che ha bisogno di nuovi modelli di gestione, ma soprattutto motivazioni “intrinseche” all’agire collettivo orientate ad un nuovo umanesimo, più solidale e responsabile (Zamagni 2019).
Verso una nuova nozione di “equilibrio”
Un ultimo cambiamento necessario, soprattutto nelle scienze economiche, è quello relativo al concetto di equilibrio. Se nei manuali di microeconomia e politica economica, l’equilibrio è inteso come situazione di ottimo paretiano, che porta all’uguaglianza tra domanda e offerta di prodotti, e aggiustamento dei relativi prezzi, oggi non possiamo più trascurare l’evidente squilibrio tra sviluppo economico, crescita sociale e condizioni ecologiche. Assistiamo cioè a forme acutissime di trade-off tra le tre sfere della sostenibilità. Se in passato si riteneva che il deterioramento dell’habitat naturale fosse un costo “esterno” (esternalità negative) della crescita economica, dovuto al “fallimento del mercato”, sanabile con opportuni strumenti o di tassazione/incentivazione (Pigou) o con la creazione di diritti di proprietà (Coase), oggi si comprende che è proprio lo squilibrio tra i fondamenti della vita umana (dimensione economica, sociale e ambientale) che produce limiti e freni al benessere oggettivo e soggettivo. Recenti studi mostrano come lo squilibrio tra queste dimensioni si riveli un freno sia alla crescita economica che al benessere percepito dalle persone (Rizzi et. al. 2018a; Graziano et. al. 2019). La soddisfazione di vita e la felicità percepita risultano correlate negativamente con lo squilibrio relativo tra elementi economici, sociali ed ambientali, dimostrando come non bastano livelli elevati di reddito e ricchezza a scapito di equità e salubrità ambientale (o viceversa) per ottenere situazioni ottimali per l’individuo e la collettività. La felicità collettiva è senza dubbio legata positivamente al reddito, ma anche all’uguaglianza, al “supporto sociale” (avere qualcuno su cui contare in caso di bisogno), alla generosità diffusa, al buon governo (Helliwell et. al. 2020), ma – e questa è davvero una novità della ricerca sociale degli ultimi anni – anche dall’equilibrio tra le diverse sfere della vita umana.
Il termine “equilibrio deriva dal latino e significa proprio di uguale peso, da aequus, “uguale”, e lībra, “peso”, di come la bilancia che allinea i due piatti quando sono appunto dello stesso peso. Siamo in equilibrio quando camminiamo o andiamo in bicicletta perché bilanciamo i pesi, ma ancora più rilevante, la nostra vita è equilibrata se diamo il giusto peso alle diverse dimensioni della nostra esistenza: il lavoro, gli affetti, la cultura, il divertimento, la spiritualità. Lo diceva già Aristotele: “È il giusto mezzo che bisogna scegliere, e non l’eccesso né il difetto, poiché il giusto mezzo è come la retta ragione dice”. Così a livello collettivo privilegiare solo la sfera economica o quella sociale diventa pericoloso, come indica un proverbio hindu significativo: “anche il nettare è veleno in caso di consumo eccessivo”. L’incuranza delle sorti dell’ambiente intorno a noi e lo squilibrio tra attività economica, relazionale e politica e la salvaguardia del sistema ecologico, rappresentano dunque un ostacolo al benessere e alla felicità pubblica.
“Se l’umanità deve sopravvivere, la felicità e l’equilibrio interiore sono di importanza fondamentale; altrimenti è molto probabile che le vite dei nostri figli e dei loro figli siano infelici, disperate e brevi” (Dalai Lama).
Paolo Rizzi, Università Cattolica di Piacenza
Riferimenti bibliografici
Acemoglu D., Robinson J. (2013), Perché le nazioni falliscono, Milano: Il Saggiatore.
Graziano P., Rizzi P. Resilienza e vulnerabilità nelle regioni europee, special issue di Scienze Regionali, 1/2020.
Graziano P., Rizzi P., Barbieri L., Piva C. (2019), A Regional Analysis of Wellbeing and Resilience Capacity in Europe, Scienze Regionali, 18, 551-574.
Graziano P., Rizzi P. (2016), Vulnerability and Resilience in the Local Systems: the case of Italian Provinces, Science of the Total Environment, 553: 211-222.
Helliwell J.F., Layard R., Sachs J., and De Neve J., eds. (2020), World Happiness Report 2020, New York: Sustainable Development Solutions Network.
Musolino D., Rizzi P. (2020), Covid-19 e territorio: un’analisi a scala provinciale, Eyesreg, 10, 3: 88-98.
Rizzi P. (a cura di) (2021), Il territorio nell’anima. Pensiero strategico e politiche territoriali. Scritti in onore di Enrico Ciciotti, Milano: Vita e Pensiero.
Rizzi P. (2019), La cura del creato e lo sviluppo sostenibile, in Passoni A. (a cura di), Prendersi cura del creato, Roma: Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa.
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Rizzi P., Ciciotti E., Graziano P. (2018b), The role of cities in economic development and the challenges of territorial marketing and place branding, in Baussola M., Bellavite C., Vivarelli M. (eds), Essays in Honor of Luigi Campiglio, Milano: Vita e Pensiero.
Rizzi P., Graziano P., Dallara A. (2020), The Regional Competitiveness: an Alternative Approach, Riss Rivista Internazionale di Scienze Sociali, International Review of Social Sciences, 307-336, 3. Zamagni S. (2019), Responsabili, Bologna: Il Mulino.