di: Stefano Casini Benvenuti
EyesReg, Vol. 11, N. 2, Marzo 2021
Il dibattito sullo sviluppo economico del paese ha da sempre posto al centro delle analisi l’importanza del territorio; sia in quelle originarie fondate sulla contrapposizione nord-sud (oltre che su quella tra settori avanzati e settori arretrati), che in quelle successive in cui a questa rappresentazione se ne sostituiva una “a macchia di leopardo”. Un’analisi quest’ultima in cui veniva esaltata l’importanza dei diversi luoghi dello sviluppo, maggiormente concentrati nel centro-nord del paese, ma presenti anche nel Mezzogiorno. Il dibattito sullo sviluppo locale ha così visto proliferare molti studi che hanno vissuto stagioni diverse, passando da una prima fase in cui l’enfasi era posta soprattutto sui distretti industriali -la principale novità del nostro modello di sviluppo- a una successiva in cui l’attenzione si è spostata in modo crescente sulle città.
Le differenze sono evidenti. I distretti sono i luoghi della specializzazione, della monocoltura che si basa su di una conoscenza contestuale, un saper fare concentrato sulle diverse fasi della produzione di un unico bene e delle sue varietà. In una rappresentazione molto stilizzata si potrebbe dire che nel distretto tutti i saperi sono indirizzati a produrre un’unica cosa su cui l’intera comunità locale è coinvolta. In queste prime analisi dello sviluppo le città erano spesso marginali, parzialmente assenti nel dibattito, per alcuni addirittura luoghi che –citando Giacomo Becattini- sottraevano le “migliori energie intellettuali” ai luoghi “veri” della produzione e quindi dello sviluppo.
Col passare del tempo però la monocoltura, la trasmissione contestuale della conoscenza -tipica del mondo distrettuale- risultava meno strategica, rappresentando talvolta un freno alla stessa capacità di innovare, un vincolo a quel cambiamento che sempre dovrebbe accompagnare il cammino dello sviluppo di ogni sistema. In questa fase le città sono allora divenute via via più strategiche, in quanto, al contrario dei distretti, sono i luoghi in cui si addensano e s’incontrano le diversità; diversità produttive, di culture, di conoscenze, di etnie, dalla cui interazione si alimenta la creatività e si generano le innovazioni. Le potenzialità di crescita e, soprattutto, la generazione di valore passa quindi sempre più dai distretti alle città, in particolare alle aree metropolitane; i distretti permangono ed anzi in molte analisi risultano ancora essere la parte più dinamica del paese (se non altro per la loro capacità di stare con successo sui mercati internazionali), ma richiedono sempre più servizi qualificati localizzati in genere nelle città; in alcuni casi essi stessi si trasformano in città al cui interno, pur mantenendosi il nucleo distrettuale originario, si sviluppano altre attività tipicamente urbane.
Facendo una rassegna dell’evoluzione delle pubblicazioni nelle riviste di economia regionale, o semplicemente dei contenuti prevalenti nelle conferenze di scienze regionali che via via si sono susseguite nel corso degli anni possiamo vedere con una certa evidenza questo graduale passaggio.
Il distanziamento sociale imposto dal Covid ha profondamente depotenziato, sino ad annullarle, quelle economie di agglomerazione che erano considerate il punto di forza delle città, anche se si può supporre che superato questo momento ritornino le antiche abitudini. Allo stesso tempo però ha anche imposto un cambiamento radicale nelle scelte di politica economica –soprattutto a livello europeo- indicando nuove (o meglio rafforzando precedenti) strategie da perseguire, non solo per far fronte ai danni dell’emergenza, ma soprattutto per rilanciare uno sviluppo che, ancor prima del Covid, procedeva con una certa lentezza.
Le tre linee strategiche del Next Generation Europe (NGEu)– il Green Deal; il rafforzamento del mercato unico adattandolo all’era digitale; la ripresa equa e inclusiva per tutti- hanno anche una dimensione territoriale e, di fatto, impongono di rivisitare il ruolo e l’importanza dei luoghi.
In tale nuovo contesto, forse ancora un po’ troppo condizionati da quanto sta accadendo in questi mesi, è lecito pensare che vi possa essere uno spazio crescente per quelle che, con Fabrizio Barca, sono state denominate “aree interne”, ovvero quei territori caratterizzati da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi e, proprio per questo, soggette a processi di spopolamento e d’invecchiamento. In Italia le “aree interne” comprendono oltre la metà dei comuni e ospitano circa un quarto della popolazione del paese.
Il problema di queste aree è stato per lungo tempo di natura prevalentemente sociale, perché la permanenza in quei luoghi risultava difficoltosa e contribuiva a generare disuguaglianze significative non tanto, o non solo, in termini di reddito (in tali aree vi è una netta prevalenza di pensionati) quanto di accesso ai servizi che rende precarie le condizioni di vita di coloro che vi risiedono. La scarsa manutenzione del territorio, a causa dei processi di abbandono delle terre coltivate, appariva certamente un problema, ma relativamente meno importante di quanto non sia oggi. Con gli effetti prodotti dai cambiamenti climatici la presenza in quei luoghi diviene infatti strategica; in tali aree vi è una disponibilità elevata d’importanti risorse ambientali (risorse idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali …) per cui il loro scarso presidio e il conseguente dissesto idro-geologico fanno sì che i danni prodotti da eventi naturali avversi sempre più frequenti, si scarichino pesantemente anche a valle, coinvolgendo anche le zone più antropizzate.
Il contributo delle aree interne alle tre strategie del NGEu non è quindi meno importante di quello degli altri sistemi locali e, in ogni caso, è verosimile che il ruolo che avevano in passato possa assumere nei prossimi anni un’importanza crescente, proprio per il doppio, positivo, contributo di prevenire e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo la possibilità di rendere la vita in quei luoghi più agevole, sfruttando le potenzialità di una digitalizzazione in grado di favorire una migliore accessibilità ai servizi essenziali, potrebbe contribuire a ridurre parte delle attuali disuguaglianze; lo stesso ripopolamento potrebbe essere possibile poiché, attraverso la digitalizzazione, in tali aree si può tornare a vivere e a lavorare non solo perché possono esservi lì nuove occasioni di lavoro, ma anche perché il lavoro a distanza è un’opzione che potrebbe essere sempre più diffusa.
Le tre linee del NGEu sono quindi fortemente rappresentate anche nelle aree interne e ci indicano che in questo nuovo modo di guardare al futuro cambia anche il ruolo dei territori e impone alle nostre discipline di ripensare ad alcune acquisizioni date finora per scontate.
Innanzitutto la delimitazione dei territori. Il lungo dibattito sullo sviluppo locale aveva avuto tra le sue conseguenze anche quella di identificare tali sistemi, individuandone i confini; ciò è avvenuto con un certo successo, portando l’ISTAT a delimitare i cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro (d’ora in avanti SLL). Come è noto si tratta di territori in cui domanda ed offerta di lavoro sono relativamente autocontenute, tali cioè da far pensare ad un vero e proprio mercato: di qui la dizione originaria di “mercati locali del lavoro”. In realtà, i luoghi che autocontengono lavoro e residenza sono anche i luoghi in cui le persone vivono la maggior parte della propria quotidianità e, assieme le imprese che vi sono localizzate, esprimono, non solo una domanda/offerta di lavoro, ma anche una domanda/offerta dei beni e servizi funzionali alla quotidianità: si tratta in altre parole di veri e propri sistemi economici in miniatura. In tali ambiti alcune delle grandezze economiche più usate –valore aggiunto, tasso di occupazione, …- acquistano un significato che non avrebbero ad una scala territoriale inferiore. Quindi il passaggio dal concetto di mercato a quello di sistema ha anche una chiara e condivisibile motivazione.
Istat sulla base di questi criteri ha individuato 610 SLL qualificandoli sulla base delle specializzazioni produttive e distinguendoli ulteriormente tra distretti e non distretti. Si tratta di sistemi locali con caratteristiche diverse, tali da incidere sulla capacità di creare lavoro: tasso di occupazione e disoccupazione variano, infatti, in modo significativo confermando la maggiore forza dei sistemi a forte vocazione industriale, lasciando quindi supporre che quel passaggio sopra evocato –dai sistemi distrettuali alle città- non si sia completamente palesato almeno in termini di capacità di creare lavoro; oppure ci dice che i criteri di delimitazione dei territori rispondono ancora troppo a logiche del passato che non rappresentano al meglio l’evoluzione avvenuta nell’economia.
Tabella 1: I sistemi locali del lavoro in Italia.
Fonte: Istat
In effetti, a guardare bene, la scelta adottata per la delimitazione dei SLL segue un punto di vista prevalentemente produttivistico, figlio proprio della visione distrettuale da cui sostanzialmente nasceva (non a caso si mantiene la distinzione tra distretto e non distretto); gli spostamenti casa-lavoro sono infatti tipici di un certo modo di concepire la produzione adottando, a tale fine, il concetto di “regione sistema” più appropriato rispetto a quello più statico di “regione omogenea”.
In realtà, già allora sarebbe stato opportuno chiedersi se quello stesso criterio fosse idoneo a cogliere le specificità dei sistemi più agricoli, in cui capita spesso che casa e lavoro coincidano, o quelle zone di montagna –molte delle attuali aree interne- in cui la presenza di lavoro è particolarmente rarefatta. Per alcuni territori forse il riferimento al concetto di “regione omogenea” sarebbe più appropriato: non sono, cioè, le relazioni casa-lavoro a qualificare quei territori, ma l’omogeneità delle loro caratteristiche.
Più in generale se è vero che si sta aprendo una nuova fase dello sviluppo segnata dalla digitalizzazione e orientata ad affrontare i problemi ambientali e a ridurre le disuguaglianze, occorre anche riflettere sul diverso contributo che i territori potrebbero avere individuando una loro delimitazione funzionale agli obiettivi da raggiungere e persino alla loro governance (visto che il rilancio degli investimenti previsto nella NGEu richiede anche capacità di progettazione e di realizzazione degli obiettivi).
Il tema oggi si ripropone per una serie di motivi. La digitalizzazione ed il Green Deal modificano i modi con cui si intessono relazioni casa-lavoro e la centralità del Green Deal aumenta l’importanza dei caratteri più strutturali del territorio.
Non si intende sostenere, impressionati dalla visione probabilmente distorta alimentata dal Covid, che le economie di agglomerazione svaniscano mettendo al centro i luoghi meno densamente abitati e frequentati, ma si vuole semplicemente richiamare che quando cambiano i paradigmi di riferimento anche alcune delle categorie concettuali tradizionali debbono adeguarsi e non è escluso che, riprendendo alcuni dei criteri per la definizione di cosa si intende per regione economica, il criterio della omogeneità possa recuperare lo spazio anche aveva perduto rispetto a quello della regione sistema.
Infine, dovendo gestire questa nuova fase in cui un ammontare consistente di risorse verrà destinato ad interventi sui territori sulla base di una progettazione mirata a dimostrare i conseguimento degli obiettivi strategici della NGEu sarebbe opportuno domandarci se una più adeguata delimitazione dei territori non sia anche funzionale a suggerire una loro più efficiente governance, specie laddove la prevalenza dei piccoli comuni –come nelle aree interne- rischia di depotenziare capacità di programmazione, proprio laddove ve ne sarebbe maggiore bisogno.
Stefano Casini Benvenuti, IRPET Toscana