di: Luca Bianchi
EyesReg, Vol.3, N.5 – Settembre 2013.
E’ possibile definire una diagnosi minima, condivisa dalla comunità degli studiosi delle politiche di sviluppo regionale, ma anche dagli operatori pubblici chiamati a progettarle e implementarle, sulle cause di fondo di un modello di sviluppo che ha reso l’Italia, già prima della crisi, un caso unico tra le grandi economie europee per bassa intensità e qualità della crescita? Per molti anni, i tentativi in questa direzione sono stati un esercizio continuo, ma non sempre conducente, segnato dall’oscillazione di “mode” e approcci talvolta forzatamente contrapposti. Ciò è valso soprattutto nelle discussioni e nei convegni che avevano al centro la questione del Mezzogiorno, la macroarea territoriale che accentua i limiti e i ritardi nazionali.
Ora, sono molti i fattori che incidono sulla mancata crescita italiana. Tuttavia, è ormai opinione acquisita nella comunità scientifica, ed è anche esperienza quotidiana di chi opera nelle diverse realtà territoriali, che l’insufficiente grado di coesione sociale, l’incertezza dei diritti (a partire da quello di proprietà), l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, l’illegalità diffusa e la relativa minore efficacia delle politiche pubbliche concorrono ad ostacolare contemporaneamente, specialmente nel Mezzogiorno dove più acutamente si manifestano, sia la crescita della produttività, sia il conseguimento di più alti livelli di eguaglianza dei redditi e di migliori condizioni di vita. Le fratture, i divari di sviluppo, storicamente determinati, assumono una dimensione, accanto a quella “classicamente” economica, sempre più marcatamente “istituzionale”.
L’analisi richiede tuttavia uno sforzo maggiore. Perché se è vero che il Mezzogiorno è ancora fortemente condizionato da vincoli strutturali, dal ritardo sul versante del reticolo istituzionale, da patologie sociali accentuate, è anche una realtà profondamente diversa rispetto al passato; al suo interno ci sono infatti aree produttive dinamiche, a volte di eccellenza, che non riescono però a fare sistema. La considerazione di una realtà così complessa, in cui convivono situazioni di arretratezza economica con esperienze d’innovazione ed efficienza richiede un ripensamento delle logiche e degli strumenti delle politiche necessarie ad accelerare un ordinato sviluppo dell’intero Paese; politiche i cui frutti saranno ancora maggiori nelle regioni meridionali.
La costruzione di politiche di sviluppo territoriale più incisive passa necessariamente per un impegno diverso per il Mezzogiorno nell’ambito delle politiche ordinarie nazionali e per una revisione critica delle funzioni e delle modalità di applicazione degli interventi “aggiuntivi” (nazionali e comunitari, centrali e regionali) per il Sud. Si tratta di un obiettivo complesso cui sono chiamati a dare un contributo tutti gli attori economici e politici, che saranno in grado di perseguirlo solo a patto di avere piena consapevolezza della pluralità di nessi, teorici e pratici, economici e politici, tra il territorio, le istituzioni e lo sviluppo.
Eppure, vi è la necessità di compiere un passo preliminare, che nemmeno in questa sede può rimosso, prima di inoltrarsi nella discussione di merito sulle politiche di sviluppo. È qualcosa che ha a che fare con la cultura politica condivisa, con le ragioni e i modi del nostro essere una comunità nazionale. Occorre infatti in primo luogo ricostruire un nuovo patto sociale per la crescita tra i territori del Nord e del Sud del Paese. L’ultimo quindicennio si è trascinato in una continua contrapposizione tra questione settentrionale e questione meridionale, finendo per acuire le distanze e per deprimere la capacità produttiva dell’intero sistema nazionale. Con la conseguenza grave di alimentare, al Sud come al Nord, particolarismi e rivendicazionismi, e conseguenti ricatti politici delle “leghe” territoriali, che hanno portato ad avere Ministri (e addirittura Ministeri) del territorio e sempre meno sviluppo. Ne è risultata, com’è ormai noto, una situazione di parallelo declino, che pur mantenendo sostanzialmente invariato le distanze tra Sud e Nord ha visto l’intero Paese scendere nelle graduatorie europee e mondiali. È dunque assolutamente da rigettare, perché errato anche nei fondamenti economici, un approccio che contrappone le esigenze del sistema produttivo delle aree più sviluppate del Nord con le necessità di sviluppo delle regioni meridionali.
In realtà gli andamenti dell’ultimo decennio hanno dimostrato come la dipendenza dalle scelte nazionali e le interrelazioni economiche tra le due aree sono così profonde da condizionare i risultati di ciascun territorio. Nel Sud pesano ancora più che altrove i costi “indiretti” di una Pubblica amministrazione inefficiente, di un carico fiscale più alto di quello dei competitors, delle carenze nel sistema infrastrutturale e logistico, di un inefficiente sistema del credito. Il sistema produttivo meridionale soffre, così come quello del Nord, la perdita di competitività dei settori tradizionali e i ritardi nella penetrazione sui mercati innovativi. Le diverse condizioni del contesto territoriale nelle due ripartizioni del Paese richiederanno dunque tipologie ed intensità di interventi diversi ma con il comune obiettivo di migliorare – attraverso una maggiore funzionalità dei mercati, una più alta qualità dei servizi collettivi e un rilancio della produttività – le condizioni competitive del sistema produttivo italiano. Occorre insomma una strategia che guardi sì ai territori, alle loro diverse specificità e vocazioni, ma sempre mantenendo una dimensione unitaria, legata a una prospettiva d’integrazione sovranazionale dello sviluppo.
E’ quindi necessario intervenire con politiche territoriali in grado di rafforzare le “istituzioni” dello sviluppo locale, e di aggredire nelle istituzioni le convenienze legate alle rendite del mancato sviluppo, per rafforzare la coesione sociale e per creare le condizioni di un ambiente “attrattivo” per gli investimenti, è ormai acquisito dalla coscienza collettiva degli studiosi e degli operatori politici. Oltre ciò rimane tuttavia “una seconda gamba” delle politiche di sviluppo che qui non posso non rammentare.
Un ruolo di primo piano, infatti, per riavviare nel breve periodo i meccanismi di sviluppo nelle aree in ritardo è il rimuovere, o attenuare, i “binding constraints” alla crescita economica, storicamente e geograficamente differenti, piuttosto che applicare indicazioni generiche e spazialmente uniformi. Ed è a partire dalla identificazione di questi vincoli che riguardano ancora oggi infrastrutture, scala di attività delle imprese relativamente minore, insufficiente presenza di produzioni innovative, che occorre costruire la seconda gamba delle politiche di sviluppo. Bisogna prendere atto come l’esperienza di questo ultimo quindicennio abbia sostanzialmente smentito la prospettiva di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, basato sulla semplice riattivazione delle risorse inutilizzate già disponibili sul territorio. Sul piano della politica economica, se si concorda nella necessità di superare tale ipotesi, di conseguenza occorre riassegnare centralità all’obiettivo, non sufficientemente perseguito dall’impianto strategico della Nuova Programmazione, di ampliare l’accumulazione di capitale produttivo attraverso l’attrazione d’investimenti esterni all’area e la creazione di attività in nuovi mercati a maggior tasso di innovazione.
Per fare ciò serve quindi un rilancio delle politiche industriali nel nostro Paese, imparando dagli errori del passato e collocandole nell’azione più ampia di interventi per il rilancio del settore industriale volti a migliorare il contesto in cui le imprese operano (infrastrutture, mercati più efficienti, sicurezza, capitale umano). E’ necessario in particolare per il Mezzogiorno che si torni a parlare di politica industriale perché l’industria è la via maestra per formare risorse manageriali, tecnologiche ed organizzative, oggi carenti, in grado di trasmettersi nella società circostante, alimentando processi innovativi. E’ lecito attendersi risultati concreti da interventi più selettivi e “verticali” (e non solo misure generalizzate), che non necessariamente si traducano in intermediazione e discrezionalità nell’erogazione, come avviene per le principali economie del mondo. In paesi importanti quali Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti è presente una “cabina di regia” che coordina i diversi interventi e si individuano tecnologie chiave nei settori medium e high-tech su cui concentrare gli investimenti. Al contrario che in Italia, non si nasconde l’intento di modificare la struttura produttiva esistente cercando di sviluppare vantaggi competitivi nei settori che hanno un forte potenziale di sviluppo. Soprattutto, si adotta una chiara logica di medio-lungo termine, da cui deriva l’assegnazione di risorse finanziarie stabili e certe.
Luca Bianchi, SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, e Regione Sicilia
at 13:39
Il processo andrebbe visto al contrario. Si dovrebbe lavorare a rimuovere gli ostacoli burocratico amministrativi, cosa che potrebbe avvenire quasi a costo zero. Il resto lo farebbe autonomamente il sistema economico. Il sud prepara ancora ottimi medici, fisici, ingegneri. Di “cabine” ce ne sono pure troppe in questo paese. I mercati pe funzionare, anche al sud, hanno solo bisogno certezza delle cornici legali, ovvero di una burocrazia efficiente. Non c’è cabina che possa pilotare una barca in cui ognuno rema in una direzione diversa. Questo si dovrebbe averlo capito già una volta per tutte.
at 17:44
L’errore dello sviluppo dall’alto: le lobby economiche delle zone più forti hanno usato le aree a ritardo di sviluppo come mercati di crescita; le grandi imprese non hanno avuto contatti di fertilizzazione del territorio circostante, anzi hanno promosso l’emigrazione dell’artigianato preferendo mano d’opera poco qualificata; l’“imprenditoria politica” del Sud, facendo perno sul sostentamento delle nuove domande di consumo della comunità meridionale, ha costruito sul nulla la propria ricchezza (anzi producendo come effetto perverso una devastazione civile).
L’errore dello sviluppo dal basso: le sole forze endogene del Sud, seppure buone quanto quelle del Nord, navigano in un ambiente ostile, come mettere un buon pesce d’acqua salata in un bacino d’acqua dolce; l’appoggio politico è stato inattendibile passando da una vision da Nuova programmazione a governi che hanno smentito in pratica quanto dichiaravano in teoria (cfr. Tulumello, I tempi del cambiamento, 2008) dimostrando che “il grillo senza zampe non sente”.
Dice Bianchi: “Per fare ciò serve quindi un rilancio delle politiche industriali nel nostro Paese, imparando dagli errori del passato e collocandole nell’azione più ampia di interventi per il rilancio del settore industriale volti a migliorare il contesto in cui le imprese operano (infrastrutture, mercati più efficienti, sicurezza, capitale umano)”. Ovvero, che significa tradotto in pratica? Io concordo con quanto scritto da Bianchi, e come non potrei. Ma come attuarlo se l’ambiente, soprattutto quello dell’amministrazione pubblica incapace di innovarsi, resta quello di ieri?