di: Ferdinando Semboloni
EyesReg, Vol.5, N.4, Luglio 2015.
Approvato il 27 marzo 2015, pur tra le ovvie polemiche (non per nulla siamo in Toscana), il Piano paesaggistico toscano promosso e sostenuto con tenacia dall’assessore regionale all’Urbanistica Anna Marson. Si tratta di una integrazione al Pit (il Piano di indirizzo territoriale del 2005, di impostazione “sviluppista”) che così acquista, con qualche stridore, valenza paesaggistica come previsto dal Codice del paesaggio.
Un piano i cui principali obiettivi sono la tutela del paesaggio rurale e il contenimento dell’urbanizzazione, noto per le discussioni coi viticoltori uscite anche sulla stampa internazionale. “To Tuscan Wine Makers, a Preservation Plan Takes On Acrid Undertones” titolava il New York Times del 25 settembre 2014. I toni aspri erano quelli della bagarre all’epoca molto vivace tra viticoltori e Assessore. L’articolo concludeva con la battagliera dichiarazione di un viticoltore di Montalcino, terra del Brunello: «No one from Florence can tell us how to cultivate our land here».
Ora che il conflitto coi viticoltori è stato composto con un accordo, ci si può chiedere perché un piano paesaggistico dovrebbe essere sospettato di avercela proprio con loro che in fondo mantengono un paesaggio famoso nel mondo.
Buoi o trattori? Questo il problema
La risposta non è semplice, bisogna partire dalle idee che stanno alla base del Piano della Toscana, seconda prova, dopo quello della Puglia, per la scuola territorialista di Alberto Magnaghi, cui va il merito dei due unici piani paesaggistici copianificati col Ministero dei Beni culturali.
Per la scuola territorialista il paesaggio è la manifestazione quasi epidermica del territorio nel quale si integrano quattro componenti: geomorfologica, ecosistemica, urbanistica e rurale. Due di origine naturale e due antropica, che con i loro caratteri di permanenza costituiscono le cosiddette invarianti, riferimento per le politiche di piano.
In questo contesto il rapporto col territorio e con la terra diviene cruciale. Il rapporto con la terra dà concretezza alla vita umana, e l’insediamento sul territorio, ovvero la territorializzazione, rappresenta una delle più alte espressione culturali di un popolo. Il rapporto si sostanzia nella cura, con chiara derivazione dall’esistenzialismo di Heidegger che vede nella cura degli oggetti intramondani la manifestazione autentica dell’essere-nel-mondo.
Purtroppo, secondo i territorialisti, la civiltà attuale ha troncato i rapporti positivi col territorio. La tecnologia ha liberato l’uomo dalla dipendenza dal territorio, ma questa libertà è stata utilizzata negativamente. Occorre quindi riportare la società ad un corretto rapporto col territorio che è la base dell’abitare. Con quali regole? Qui soccorre lo studio storico della coevoluzione uomo-territorio. I rapporti di lunga durata (con riferimento alla scuola storica francese degli Annales) sono anche le regole da seguire nel futuro.
Il giudizio negativo sull’attuale fase risulta utile per vari motivi. Da un lato esclude che le pratiche contemporanee possano costituire guida per l’azione. Non si potrà difatti inferire la regola da una società de-territorializzata. Dall’altro implica un movimento per la ri-territorializzazione di cui in qualche modo gli intellettuali sono l’avanguardia insieme ai vari comitati che operano per un uso sociale del territorio. Il piano paesaggistico militante non può che partecipare a questo movimento.
Questa estrema sintesi non rende merito alla complessità del pensiero territorialista, ma può dare un’idea dei contrasti generati.
Da un lato il pregiudizio sulla società attuale rende difficile un’analisi oggettiva e pacata, e uno studio dettagliato se non per gli aspetti che si ritengono negativi. Dall’altro inferire dalla lunga durata delle regole da applicare all’oggi porta al conflitto. Le regole trovate, l’agire secondo tradizione, sono inadatte ad un contesto tecnologico e di mercato completamente mutato.
Il caso dell’agricoltura è evidente. Pensare di applicare le regole valide quando per la coltivazione dei vigneti si utilizzavano i buoi e la vanga, e il vino si vendeva al massimo nella città più vicina, finisce per creare attriti con l’attuale modo di produzione che è industrializzato, sia per tecnologia che per organizzazione del lavoro e del commercio.
La debolezza del metodo storico della lunga durata applicato alla decisione è stata evidenziata in un’altra e più aspra contesa coi cavatori delle Alpi Apuane poste nell’estremo nord-ovest della regione. Qui si addensa un groviglio di interessi: profitti delle multinazionali, timori per l’occupazione e proteste ambientaliste.
In questo caso i cavatori, spalleggiati anche da Philippe Daverio − «le cave si lavorano da millenni» (La Nazione, 2014) e da quelle cave «è uscito il David» − hanno sostenuto, in una pagina dei principali quotidiani locali da loro acquistata, che l’identità paesaggistica delle Apuane era rappresentata dalle cave di marmo. Sottacendo che la tecnologia permette di cavare molto più di prima con le ovvie conseguenze: la montagna viene mangiata e l’ambiente inquinato dalle discariche dei detriti e dalla polvere di marmo.
Come sosteneva Croce ogni storia è storia contemporanea, cioè politica (aggiungeva Gramsci). Quindi meglio sarebbe partire dai problemi attuali e dalle condizioni tecnologiche che da una analisi storica, pur necessaria, dalla quale ognuno pesca quel che vuole a seconda della convenienza.
Policentrismo vs gerarchia
L’uso del metodo storico è emblematico di come il piano affronta uno dei temi cruciali e cioè il rapporto tra territorio e insediamenti urbani. Delle quattro componenti del territorio citate all’inizio questa è la terza la cui caratteristica invariante sarebbe, per la Toscana, l’aspetto policentrico.
Il policentrismo del sistema urbano toscano è una delle invarianti, cioè i caratteri della regione che dovrebbero rimanere costanti, incluse già nel Pit del 2000. Una scelta politica del vecchio Pci regionale che intendeva con questo mantenere il consenso dicendo in sostanza ai capoluoghi di provincia, e quindi alle federazioni provinciali: «Siete tutti uguali, non c’è un figlio prediletto». Ora viene impiegato nel piano paesaggistico per spiegare che non ci sono, o non ci dovrebbero essere, gerarchie territoriali e che la regione deve essere popolata di reti di città perché questa sarebbe la situazione derivante dagli studi storici della lunga durata.
La relativa alta densità insediativa toscana, e il risultante policentrismo, era una caratteristica del periodo medievale, fortemente ridimensionata dalla successiva crisi demografica e dall’espansionismo fiorentino (Epstein, 1996). Ne rimane parziale testimonianza l’addensarsi dei centri urbani nell’area da Pisa a Firenze.
Il policentrismo attuale, caratteristica delle regioni europee (Dijkstra, 2013), è questione complessa che coinvolge categorie economiche e territoriali. Nello studio europeo di Espon (2004) la macro-regione composta da Toscana, Umbria e Marche sta in fondo alle graduatorie per policentricità essendo in testa, tra le italiane, la Lombardia. Secondo l’Irpet (2010), l’Istituto regionale toscano per la programmazione economica, la regione Marche è la prima per policentricità tra quelle italiane, con un indice circa tre volte quello della Toscana che è quinta. In conclusione: un carattere invariante, quello del policentrismo toscano, variabile a seconda dei criteri usati e probabilmente basato su scelte politiche e ideologiche.
L’ulteriore difficoltà ad interpretare l’insediamento sul territorio viene dalla visione, derivante ancora dall’esistenzialismo di Heidegger (1976), dell’essere abitante simile ad una pianta: radicato nel proprio territorio che cura e da questo formato. Lo spazio astratto si trasforma quindi in un insieme di luoghi abitati. E così per generalizzazione vengono studiati nel piano i sistemi urbani: radicati nel loro territorio che ne influenza la forma.
Figura 1: Sinistra: carta dei morfotipi insediativi (dal Piano paesaggistico) che prefigurano la suddivisione della Toscana in bioregioni urbane. Destra: rete del trasporto pubblico locale (dal Piano della mobilità) dalla quale emergono i movimenti e le gerarchie territoriali.
La città, come Max Weber ci insegna, è un luogo in cui si commercia, e l’origine mercantile di tante città toscane, poi consolidatesi come entità politico-militari, è indiscutibile. Il commercio è connesso alla mobilità. Ogni centro tende quindi ad essere collegato a quelli circostanti con una rete continua poiché movimento e stanzialità sono ugualmente necessari e fortemente interrelati. Non a caso il fenomeno urbano aumenta di intensità con la vicinanza al mare, grande via di comunicazione.
Viceversa il piano ci propone una divisione della regione nei cosiddetti morfotipi (fig. 1), che prefigurano quell’insieme di bioregioni urbane in cui dovrebbe articolarsi il territorio regionale. Una visione ideologica non necessariamente conforme alla realtà. Attraverso un’analisi del trasporto pubblico locale si comprendono i movimenti sul territorio e le gerarchie (fig. 1) che si sono consolidate soprattutto a causa della drastica diminuzione dei costi di trasporto negli ultimi cento anni.
Un piano per … il socialismo libertario
Bioregioni e reti di città prefigurano il progetto di nuova società per il quale occorre un cambiamento del modello culturale: abbandonare quello centro-periferico basato sull’espansione economica e urbanistica, ed assumere quello policentrico. “Senza questa assunzione culturale, qualunque norma risulterebbe inefficace”, si dice nel Piano (Regione Toscana, 2015, pag. 94).
L’approccio territorialista ingloba molte componenti, tra cui quella utopica (Choay, 2005). Alcune delle sue radici si trovano difatti nel socialismo libertario di Murray Bookchin. Si auspicano delle trasformazioni graduali non violente della società, attraverso la formazione di nuclei che applicano i principi comunitari. Questi convivono temporaneamente col vecchio sistema, con lo scopo di diffondersi al suo interno sino a modificarlo radicalmente.
La Toscana è terra che si presta ad esperimenti comunitari, anche di origine religiosa. Ne sono esempi le comunità di Nomadelfia in Maremma, Montemercole ad Anghiari, Osho Miasto a Casole d’Elsa o Pignano a Volterra.
Curiosamente si vorrebbe proporre attraverso un piano questo nuovo ordine sociale che per sua natura scaturisce liberamente dal basso. Le norme che vengono fuori da un progetto del genere non possono che essere evocative.
Evidentemente non si può scrivere che si devono promuovere delle comunità autosufficienti, ma si afferma (Regione Toscana, 2015, pag. 94) che occorre: “ristabilire la complessità dei corridoi infrastrutturali in relazione ai caratteri policentrici dei morfotipi insediativi, funzionale alla ricomposizione del territorio posturbano verso la bioregione urbana policentrica; riabilitando le funzioni della viabilità storica, dei sistemi fluviali, della viabilità rurale, dei nodi di interscambio con la rete di mobilità dolce … per elevare l’accessibilità ai sistemi reticolari e policentrici, favorendo la mobilità residenziale e lavorativa, per abitare la complessità di ambienti di vita e dei paesaggi delle regioni urbane e valorizzare i sistemi socioeconomici a base locale”. Una lunga citazione per mostrare il linguaggio usato e l’ampiezza degli obiettivi proposti. Un piano che, come il povero Atlante, prova a sorreggere un nuovo mondo descritto in maniera perlomeno contorta.
Epilogo
Nelle battute finali per l’approvazione del Piano i punti principali del contendere stavano nel divieto di aprire nuove cave al di sopra dei 1200 metri e nel limite del 10% all’ampliamento degli alberghi nella fascia costiera dei 300 metri dalla spiaggia. Norme opportune, ma occorre tutto l’armamentario ideologico su accennato per giungere a queste conclusioni?
Non si tratta di una domanda retorica o di un esercizio dialettico, poiché il Piano paesaggistico dovrà essere recepito dai piani strutturali dei comuni dove occorrerà passare dalle formulazioni talvolta contorte a delle norme semplici e chiare che non riguardano società utopiche, ma la vita dei cittadini toscani di tutti i giorni.
Il piano è di per sé uno strumento difficile da gestire con l’attuale struttura politica. Gestione che diviene più complicata quando il piano assume un carattere olistico che vorrebbe comprendere anche gli aspetti culturali. Ciò che occorre è uno strumento forse minimalista, chiaro nelle sue prescrizioni, che si limiti nei confini stabiliti dalla legge. Questo probabilmente sarà il destino di questo Piano paesaggistico del quale verranno presi in considerazione gli elementi concreti e abbandonati quelli più evocativi e utopici.
Ferdinando Semboloni, Università di Firenze
Riferimenti bibliografici
Choay F. (2005), L’utopie et le statut anthropologique de l’espace édifié, Esprit, 318, 93-112.
Dijkstra L., Garcilazo E. e McCann P. (2013), The Economic Performance of European Cities and City Regions: Myths and Realities, European Planning Studies, 21:3, 334-354.
Epstein S. R. (1996), Stato territoriale ed economia regionale nella Toscana del Quattrocento, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico: politica, economia, cultura, arte, Atti del convegno (Firenze, Pisa, Siena, 5-8 novembre 1992), Pacini, Pisa, 869-890.
ESPON Coordination Unit (2004), ESPON 1.1.1, Potentials for Polycentric Development in Europe, Luxembourg.
Heidegger, M. (1976), Costruire, abitare, pensare, in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano.
Irpet (2010), Urbanizzazione e reti di città in Toscana. Rapporto sul territorio 2010, Irpet, Firenze.
La Nazione (2014), Philippe Daverio bacchetta gli ambientalisti, La Nazione Cronaca di Massa, 28/7/2014.
Regione Toscana (2015), Piano paesaggistico. Abachi delle invarianti strutturali, Regione Toscana, Firenze.