di: Mattia Casula
EyesReg, Vol.6, N.1, Gennaio 2016
L’attuale vincolo per i piccoli comuni italiani di gestire obbligatoriamente in forma associata le proprie funzioni fondamentali ha trovato il suo primo riferimento normativo nel D.L. 78/2010 (1). Dopo questa prima previsione, il legislatore nazionale è poi intervenuto negli anni con diverse proroghe, sia con riferimento alle tempistiche e alle modalità di implementazione del vincolo che i comuni avrebbero dovuto rispettare che alle funzioni da gestire in forma associata. Da ultima, la Legge Delrio (L. 56/2014) aveva fissato il 1° Gennaio 2015 come il termine ultimo per i comuni con meno di 5.000 abitanti (o 3.000 se appartenenti o appartenuti a comunità montane) per gestire obbligatoriamente le proprie funzioni fondamentali, o in convenzione o in unione di comuni. Ma, considerando la portata di tale intervento e le evidenti difficoltà riscontrate in numerose regioni italiane per la sua implementazione, non sorprende se recentemente il policy-maker nazionale sia nuovamente intervento apportando una ulteriore proroga al 1° Gennaio 2016 per il rispetto di questo adempimento.
A parere di chi scrive, i motivi deducibili da questa scelta sono senz’altro differenti e plurimi. Mi limiterò ad elencarne tre. Anzitutto, la complessità della materia trattata, non sempre di facile comprensione per gli addetti ai lavori e per chi, almeno sulla carta, dovrebbe implementare quanto deciso dall’alto. Segue l’incapacità da parte di molte Regioni, che sono interessate anche da altre questioni di natura finanziaria interna, di adeguarsi tempestivamente ad una normativa tanto in continua evoluzione quanto di dubbia interpretazione. Infine, una sempre maggiore diffidenza da parte degli amministratori locali nei confronti degli adempimenti posti dal legislatore nazionale, il quale negli ultimi decenni ha cercato più volte di introdurre riforme radicali in questo settore, salvo limitarsi a tentativi (perché di questo si è trattato, nulla di più) incrementali e tra loro non sempre congiunti.
D’altro canto, ripercorrendo l’evoluzione normativa in materia di gestioni associate dalla L. 142/1990 si può notare come le direzioni del cambiamento auspicate dal legislatore nazionale non siano state tra loro sempre omogenee. In una sua prima previsione, l’unione di comuni era stata intesa come prodromica alla fusione. Infatti, l’art. 26 della L. 142/1990 affermava che “in previsione di una loro fusione, due o più comuni contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, [avrebbero potuto] costituire una unione per l’esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi ”. L’aver imposto simili vincoli e, soprattutto, l’aver individuato l’unione di comuni come il primo passo verso la fusione ha rappresentato il principale freno all’avvio di tale istituto nel tempo: nel decennio tra il 1990 e il 2000 è possibile registrare la nascita di appena 16 casi di unioni di comuni in tutto il territorio nazionale (Ermini e Salvucci, 2006, p. 157). Attraverso l’eliminazione dei vincoli precedentemente imposti, la successiva L. 265/1999 (la cd. Napolitano-Vigneri) farà invece da volano all’associazionismo intercomunale italiano (Baldini et al., 2009, p. 51), trasformando l’unione in un ente locale vero e proprio (Quagliani 2005). Non è un caso se a soli due anni di distanza dalla sua entrata in vigore il numero di unioni sul territorio nazionale sia passato dalle 16 alle 132 unità, interessando 596 comuni e una popolazione pari a 1.503.422 abitanti (Ermini e Salvucci, 2006, p. 157). A partire dall’inizio degli anni duemila è poi iniziata una fase di sperimentazione sul campo di queste forme associative, talvolta incentivate da specifiche politiche regionali, talvolta affiancate da altre forme associative come le convenzioni e/o i consorzi. Seppur sempre a legislazione invariata.
La situazione è invece profondamente mutata nella recente “stagione delle manovre finanziarie”, inaugurata con il DL 78/2010, che, sotto il paradigma dell’austerity (Bolgherini, 2015), ha sancito un progressivo ripensamento del ruolo del comune, specie di quello più piccolo. Come detto, l’idea è che le funzioni fondamentali spettanti ai comuni debbano essere gestite obbligatoriamente in forma associata dai piccoli comuni italiani. Gestione che, parallelamente, necessita anche di una ridefinizione delle funzioni spettanti alle province, alle nuove città metropolitane e alle Regioni ma che non potrà non essere realizzata se non specificando l’ambito ottimale di esercizio delle funzioni fondamentali e quelle di area vasta. Per questa ragione, la Legge Delrio ha cercato di introdurre una serie di misure agevolative, di ordine sia organizzativo che finanziario, per la messa in rete dei comuni. Per esempio, essa ha introdotto la figura del segretario dell’unione scelto tra quelli dei comuni ad essa facenti parte, confermando il limite demografico ordinario di almeno 10.000 abitanti (3.000 in caso di zone montane) per le unioni per l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali. Inoltre, come nel caso delle città metropolitane e delle province, essa ha previsto la gratuità delle cariche nei suoi vari organi anche nel caso delle unioni.
Eppure, nonostante l’approvazione della Legge Delrio sia stata accompagnata da una forte campagna mediatica che l’ha indicata come la prima vera riforma organica degli enti locali italiani dopo i fallimenti della l. 142/1990, a parere di chi scrive i dubbi e le perplessità verso il suo tratto di radicalità e di rottura rispetto al passato sono ancora tanti. Sempre a parere di chi scrive, essa mostrerebbe infatti dei chiari segni di “ritorno al passato”, sintetizzabili sia nella possibilità per i comuni sotto i mille abitanti di poter prevedere la figura dell’assessore, sia nell’allentamento degli obblighi delle gestioni associate strutturate. Su quest’ultimo punto vale infatti la pena sottolineare come in una sua prima versione essa avesse previsto la costituzione di consigli provinciali composti dai soli sindaci con più di 15.000 abitanti e dal presidente delle unioni di comuni con oltre 10.000 abitanti. Una simile disposizione avrebbe indotto i comuni a dar vita a vaste unioni di comuni sul territorio, anche in contesti regionali dove l’associazionismo intercomunale è sempre stato assente o, quantomeno, non realizzato attraverso l’utilizzo di forme stabili di cooperazione quali le unioni di comuni. Non deve pertanto sorprendere se una simile disposizione abbia incontrato l’opposizione sia da parte di numerosi amministratori locali, provinciali e regionali che di alcune associazioni di rappresentanza per il suo dubbio tratto di costituzionalità.
In termini di scelte di policy, la lettura della Legge Delrio evidenzia come a prevalere sia stata una visione territoriale che tenesse conto sia delle peculiarità storico-culturali del singolo territorio, sia delle prerogative regionali e locali nella scelta della propria dimensionale ottimale di governo. Ciò all’interno di un quadro normativo che ha visto il venir meno della possibile, quanto discussa, abolizione dell’ente intermedio provincia. Mi preme inoltre sottolineare come, fortunatamente, il problema del mantenimento o della soppressione di questo ente non sia stato posto solo in termini di tagli alla politica o di (generalizzate) inefficienze del sistema amministrativo locale italiano (come invece fatto per tutto il 2012), ma anche di una sua effettiva utilità, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale. Anche in questo caso ci si è trovati a preferire una logica “territoriale” che tenesse conto delle specificità dei singoli contesti locali e nei quali la presenza di un ente intermedio di coordinamento potesse risultare vitale per la loro sostenibilità istituzionale futura. Si pensi ai piccolissimi quanto numerosissimi comuni di alcune regioni del Nord Italia (come Piemonte, Lombardia e Veneto) che ancora mostrano evidenti difficoltà nelle gestioni associate delle funzioni fondamentali e che senza la presenza di un ente di raccordo e di coordinamento con la rispettiva Regione difficilmente sarebbero in grado, in un futuro, di raggiungere alti standard qualitativi per l’offerta dei servizi.
Pertanto, i continui up and down del legislatore nazionale devono essere letti parallelamente al dibattito nazionale apertosi per la revisione dell’intera geografia amministrativa locale italiana. Inoltre, i continui allentamenti e le continue proroghe poste in essere dal legislatore nazionale in questi anni, forse destinate a perpetuarsi anche nei prossimi, enfatizzano tre diverse caratteristiche delle misure da esso adottate.
Anzitutto, l’unione di comuni, ossia la forma associativa che nel nostro ordinamento presenta il massimo grado di istituzionalizzazione (Fedele e Moini 2006), è passata dall’essere intesa come uno strumento quasi obbligatorio ad uno privilegiato, seppur non esclusivo. Parimenti, la convenzione è infatti un ulteriore strumento per adempiere a questo vincolo. In secondo luogo, il legislatore nazionale ha scelto di lasciare alle regioni ampi margini discrezionali per la futura verifica dell’efficienza e dell’efficacia della gestione associata, nonché delle modalità di trasferimento integrale delle funzioni al nuovo ente. A ben vedere si tratta di margini di discrezionalità che contribuiranno in maniera significativa a differenziare la natura delle forme associative nelle varie realtà della Penisola, soprattutto per via delle legacies negli anni consolidatesi nelle tanto eterogenee regioni italiane (Casula, 2014). Quest’ultima si lega alla terza e ultima caratteristica delle misure adottate in questi anni dal legislatore. I continui aggiustamenti e le continue proroghe del policy maker nazionale si sono avute anche a seguito delle numerose pressioni provenienti da alcune regioni e da alcune associazioni di rappresentanza dei comuni che hanno sottolineato lo scollamento tra un’ idea dell’ esercizio associato delle funzioni così come pensato dall’alto e la storia concreta di ciò che negli anni si è andato consolidato nei diversi contesti locali italiani.
Per concludere, si tratta di informazioni che suggeriscono come questa politica stia assumendo i tratti di una politica “simbolica”, cioè destinata a non essere pienamente implementata (nello specifico senso attribuito al termine da Gustafsson, 1983, p. 271). Infatti, da un lato mancano le giuste conoscenze per adempiere al vincolo. Dall’altro lato, ciò che sta sempre più venendo meno è la volontà di farlo rispettare. D’altro canto, le ambizioni a dar vita a forme associative stabili e su larga scala non sempre sono in grado di compensare le resistenze tutt’ora presenti, specie in presenza di enti regionali assenti o tutto sommato propensi a lasciare liberi i comuni di auto-determinare la propria dimensione ottimale di governo, anche per via degli ampi margini di discrezionalità lasciati loro dal governo centrale.
Mattia Casula
Riferimenti bibliografici
BALDINI, G., BOLGHERINI, S., DALLARA, C., MOSCA, L. (2009), Unioni di Comuni Le sfide dell’intercomunalità in Emilia-Romagna, Bologna, Misure / Materiali di ricerca dell’Istituto Cattaneo.
BOLGHERINI, S. (2015), Navigando a vista. Governi locali in Europa tra crisi e riforme, Bologna, Il Mulino.
CASULA, M. (2014), Politiche regionali di incentivazione all’esercizio associato di funzioni e servizi: i casi di Veneto ed Emilia-Romagna, in “Le Istituzioni del Federalismo”, 3, pp. 667-697.
ERMINI, B. e SALVUCCI, S. (2006), L’associazionismo intercomunale. Analisi e riflessioni sull’esperienza delle Unioni di Comuni nelle Marche, in “Economia Pubblica”, 3-4, pp. 111-138.
FEDELE, M. e MOINI, G (2006), Cooperare conviene? Intercomunalità e politiche pubbliche, in “Rivista italiana di politiche pubbliche”, vol. 7, n.1, pp. 71-98.
GUSTAFSSON, G. (1983). Symbolic and Pseudo Policies as Responses to Diffusion of Power. In “Policy Sciences”, 15 (3), pp. 269-287.
QUAGLIANI, A. (2005), Valutazione delle politiche e governance nelle regioni, Milano, Franco Angeli.
Note
[1] Il processo di referaggio di questo articolo si è concluso prima dell’approvazione del Decreto Milleproroghe 2016 (decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210) che ha previsto una proroga al 31 Dicembre 2016 per l’adempimento del vincolo della gestione associata per i piccoli comuni italiani.