di: Stefano Costa e Carmine Pappalardo, Claudio Vicarelli
EyesReg, Vol.4, N.3 – Maggio 2014.
La letteratura economica ha evidenziato empiricamente l’esistenza di una relazione positiva tra competitività e grado di internazionalizzazione delle imprese: quelle attive sui mercati esteri presentano una più elevata produttività rispetto alle imprese rivolte esclusivamente al mercato interno (Bernard and Jensen 1995). Modelli teorici (Melitz 2003, Melitz e Ottaviano 2008, Chaney 2008, Bernard et al. 2011), sottolineano infatti, come solo le imprese più produttive possano coprire i sunk costs legati all’attività sui mercati esteri, avendo così la possibilità di internazionalizzarsi.
Inoltre, a forme d’internazionalizzazione più “complesse” si associano migliori performance in termini di produttività e redditività (Wagner 2011a). Ne consegue che la possibilità di evolvere verso forme più avanzate d’internazionalizzazione potrebbe rafforzare la competitività dell’impresa e, in ultima analisi, il potenziale di crescita economica del Paese. Quest’ultimo elemento appare assai rilevante nel periodo di recessione attuale, caratterizzato da domanda interna stagnante o in contrazione, dove il rilancio ciclico sembra legato essenzialmente alla capacità di agganciare la domanda internazionale.
Lo scopo di questo lavoro è quello di indagare il rapporto tra le scelte di internazionalizzazione delle imprese, la performance e le probabilità di sopravvivenza sui mercati esteri. A questo fine, si utilizza un database innovativo di fonte ISTAT sulle imprese italiane internazionalizzate (sono escluse le imprese che operano solo sul mercato interno), che integra informazioni sull’attività all’estero (valore e volume dell’export e import, tipologia di beni e mercati di provenienza/destinazione), dati amministrativi (valore aggiunto, fatturato, salari, occupati) e attività delle multinazionali operanti sul territorio italiano (a controllo sia italiano, sia estero). Il dataset include informazioni sulle imprese italiane operanti sui mercati internazionali osservate in due istanti temporali: il 2007, anno precedente l’inizio della crisi finanziaria, e il 2010 (circa 90.000 unità in ciascuno dei due anni). Si tratta di un campione molto rappresentativo: le imprese considerate occupavano, al 2010, 4,4 milioni di addetti, rappresentando l’85% del totale dell’export in valore. Occorre considerare che la base dati non permette di distinguere se, tra il 2007 e il 2010, le aziende che non compaiono nel secondo anno abbiano temporaneamente interrotto le attività commerciali all’estero, siano fallite o abbiano interamente rivolto le proprie attività al mercato interno. Possiamo quindi considerare i risultati empirici che seguono come un limite superiore ai veri effetti.
Una tassonomia dell’internazionalizzazione delle imprese italiane
Sulla base della letteratura (Altomonte et al, 2012), è stata costruita una tassonomia delle strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane consistente in sette classi. A partire dalla forma meno complessa, la prima (“solo esportatrici”) comprende le imprese esportatrici verso i mercati europei e/o verso un massimo di quattro aree extra-UE; la seconda e la terza includono le imprese che esercitano solo attività di importazione, rispettivamente di beni intermedi e di altri tipi di beni e servizi; la quarta classe comprende le imprese che effettuano attività sia di importazione sia di esportazione (“two-way traders”); la quinta le imprese esportatrici in almeno cinque aree extra-UE (“globali”). Le ultime due classi includono le imprese italiane con controllate estere (“MNE”) e imprese italiane a controllo estero (“controllo estero”). Per ogni anno, le classi sono mutualmente esclusive; se l’impresa presenta caratteristiche comuni a più categorie, essa viene collocata nella classe superiore.
Tabella 1 – Forme di internazionalizzazione e caratteristiche d’impresa (2010)
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
Nel 2010, le imprese sono distribuite principalmente nei gruppi “Two-way traders” (30,8%) e “solo esportatrici” (26,4%), mentre quelle a controllo estero e le multinazionali italiane rappresentano rispettivamente il 4,7% e il 3,4% del totale. Le imprese di questi ultimi due gruppi mostrano una dimensione media più elevata in termini di numero di addetti (Tabella 1) e una maggiore diversificazione produttiva, mentre le aziende “globali” servono in media un numero maggiore di mercati (Tabella 2). Si può anche osservare come la produttività del lavoro – misurata in termini di valore aggiunto per addetto – aumenti al crescere del grado di complessità delle forme di internazionalizzazione.
Tabella 2- Forme di internazionalizzazione e diversificazione di prodotto (2010)
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
Le strategie d’internazionalizzazione durante i primi anni della crisi
Le strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane si sono modificate durante i primi anni della crisi. Nella matrice di transizione (Tabella 3), la diagonale principale indica la percentuale di imprese che tra il 2007 e il 2010 sono rimaste nella stessa classe di internazionalizzazione; per ciascuna riga, i valori a sinistra (destra) del valore sulla diagonale evidenziano la percentuale di imprese transitate verso forme più (meno) complesse. In particolare, delle circa 57.000 imprese presenti in entrambi gli anni del campione, il 70% non ha mostrato cambiamenti nella strategia d’internazionalizzazione. Tuttavia, i cambiamenti di status risultano numericamente significativi: il 18,2% del campione (circa 10.500 imprese) si è spostata verso forme più evolute, in particolare dalle classj “solo esportatrici ” e “importatori di beni intermedi” a “two-way traders” (circa 3.300 e 2.000 unità, rispettivamente). Al contrario, circa 7.000 imprese (12,3 % del campione) si sono spostate verso il basso, per lo più dalla classe ” globale” a “two-way trader”. Nei primi anni della recessione le imprese internazionalizzate italiane sembrano quindi aver sperimentato un “movimento netto” positivo verso forme più complesse di presenza sui mercati internazionali.
Tabella 3 – Matrice di transizione: variazione delle forme di internazionalizzazione tra il 2007 e il 2010 (n. imprese e %)
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
Alle diverse classi d’internazionalizzazione corrispondono performance differenti, misurate in termini della variazione percentuale di occupati e del valore aggiunto (Tabella 4). L’effetto della transizione/persistenza è stimato regredendo la variabile di performance sul suo livello nel 2007, su un gruppo di variabili dummy relative alla forma d’internazionalizzazione dell’impresa, controllando per dimensione (approssimata dal numero medio di addetti), localizzazione (Nord-est, Centro e Sud) e settore di attività economica (Nace.Rev.2, 2-Digit). In questo caso le sette categorie sono state raggruppate in quattro classi: un solo gruppo per tutte le mutinazionali, uno per le importatrici, uno comprendente “globali” e “two-way trader”, uno per le esportatrici.
Tabella 4 – Effetti di variazioni e permanenze nelle forme di internazionalizzazione sulla performance d’impresa
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
I risultati evidenziano come: i) a spostamenti verso l’alto nella scala dell’internazionalizzazione corrispondano variazioni positive di occupazione e valore aggiunto; ii) più ampio è il “salto” di classe, più forte è l’effetto sulla performance.
Sopravvivenza e internazionalizzazione sui mercati esteri
La relazione tra forma di internazionalizzazione e probabilità di sopravvivenza dell’impresa sui mercati internazionali è stata investigata empiricamente. I risultati delle stime (1) coerentemente con la letteratura esistente (Farinas e Ruano 2005; Wagner 2009), mostrano una relazione positiva tra produttività, diversificazione di prodotto e di mercato e la probabilità di sopravvivenza sui mercati esteri.
In particolare, si vuole qui sottolineare il ruolo della dimensione e della localizzazione geografica delle imprese sulla probabilità di sopravvivenza. Per quanto riguarda il primo aspetto, si conferma come, all’aumentare della dimensione di impresa, aumenti la probabilità di sopravvivenza nei mercati esteri. I coefficienti stimati (Tabella 5) per le imprese di grandi dimensioni sono sistematicamente più elevati di quelli delle imprese di medie dimensioni, indipendentemente dalla forma di internazionalizzazione adottata. Nel caso delle imprese globali, tuttavia, l’aspetto dimensionale sembra contare meno rispetto a forme diverse di internazionalizzazione; la produttività potrebbe essere meno legata alla possibilità di operare economie di scala.
Tabella 5 – Determinanti della sopavvivenza delle imprese sui mercati esteri. Effetti marginali medi.
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
Per quanto riguarda il secondo aspetto, rispetto al posizionamento nel nord-ovest italiano le stime confermano il “premio negativo” di sopravvivenza legato alla localizzazione nelle regioni meridionali. Quest’ultimo da un lato è statisticamente significativo per qualsiasi tipologia di internazionalizzazione, dall’altro risulta più accentuato per le forme meno complesse: la probabilità di sopravvivenza delle imprese meridionali solo esportatrici è di circa 14 punti percentuali inferiore rispetto alle imprese del nord-est, contro i 12,5 punti delle importatrici di altri beni e gli 11,6 punti delle importatrici di beni intermedi. Le imprese globali e le multinazionali posizionate nel sud-Italia mostrano comunque una probabilità di sopravvivenza negativa, ma meno accentuata (8,8 e 6,3 punti percentuali). Da rimarcare, infine, come seppur sempre negative e statisticamente significative, le probabilità di sopravvivenza per le imprese posizionate al centro Italia (rispetto al nord-ovest) risultino, per ciascuna forma di internazionalizzazione, comunque inferiori di almeno la metà rispetto a quelle delle imprese meridionali.
In conclusione, la questione del potenziale di crescita delle imprese italiane associate a un aumentato grado d’internazionalizzazione si ripropone, soprattutto nella fase attuale, come questione centrale per le possibilità di ripresa per l’economia italiana. La diversificazione dei prodotti e dei mercati, quindi, dovrebbe rappresentare un obiettivo da perseguire: essere “globali” aumenta la probabilità di restare competitivi, fare profitti e sopravvivere anche in tempi di crisi . Al contempo, la questione dimensionale e il posizionamento geografico delle imprese sul territorio italiano continuano a costituire un elemento di freno rilevante per il processo di internazionalizzazione.
Stefano Costa, ISTAT
Carmine Pappalardo, ISTAT
Claudio Vicarelli, ISTAT
Riferimenti bibliografici
Altomonte, C., Aquilante T. and Ottaviano G.I.P. (2012), The Triggers of Competitiveness: The EFIGE Cross-Country Report, Bruegel Blueprint n.17
Bernard, A., Jensen J. (1995), Exporters, Jobs, and Wages in U.S Manufacturing: 1976 – 1987, Brookings Papers on Economic Activity, Microeconomics 1:67-119.
Bernard, A. Redding, S. J., Schott P.K. (2011), Multi-product firms and trade liberalization. Quarterly Journal of Economics, Volume 126, 3:1271-1318.
Chaney T. (2008), Distorted Gravity: The Intensive and Extensive Margins of International Trade, American Economic Review, 98, 1707-1721.
Costa S., Pappalardo C., Vicarelli C. (2013) “Financial Crisis, Internationalization Choices and Italian Firm Survival”, Paper presentato alla XXXIV Conferenza AISRE , Palermo.
Farinas, J.C., Ruano S. (2005), Firm productivity, heterogeneity, sunk costs and market selection, International Journal of Industrial Organization 23: 505-534.
Melitz, M.J. (2003), The Impact of Trade on Intra-Industry Reallocations and Aggregate Industry Productivity, Econometrica 71, 6:1695-1725.
Melitz, M.J., Ottaviano G.I.P (2008), Market Size, Trade and Productivity, Review of Economic Studies, 75, 1:295–316.
Wagner J. (2009), Entry, Exit and Productivity: Empirical Results for German Manufacturing Industries, German Economic Review 11, 1:78-85.
Wagner J. (2011a), International Trade and Firm Performance: A Survey of Empirical Studies Since 2006, Institute for the Study of Labor (IZA) Discussion Paper n.5916, august.
Wagner J. (2011b), Exports, Imports and Firm Survival: First Evidence for Manufacturing Enterprises in Germany”. University of Luenebug Working Paper Series in Economics No. 211, August.
Note
(1) Per maggior dettaglio sulla specificazione e i risultati si rimanda al lavoro “Financial Crisis, Internationalization Choices and Italian Firm Survival”, presentato alla XXXIV Conferenza AISRE http://www.grupposervizioambiente.it/aisre_sito/doc/papers/Costa%20Pappalardo%20Vicarelli.pdf