di: Giuseppe Roma
EyesReg, Vol.4, N.6 – Novembre 2014.
L’intreccio appassionante fra investimenti e territorio, fra economia dell’ innovazione e luoghi fisici della transizioni, pongono un quesito allarmante. E’ possibile lo sviluppo, oggi sempre più legato alle città e alle maxopoli, al protagonismo imprenditoriale regionalizzato, senza un rinnovato disegno di governo istituzionale? L’attuale contesto spinge oggi a pensare più a vuoti di potere decentrato, con effetti negativi proprio sull’economia.
Territorio senza presidi.
Province eliminate, Camere di Commercio azzoppate. Ora a chi tocca? Nel giro di pochi anni siamo passati dal considerare le autonomie funzionali come baluardo dello sviluppo, dall’ esaltare la “forza del territorio” come strumento della coesione comunitaria, allo svuotamento dei presidi di riferimento locale.Tutti cercano,infatti, di ridurre le proprie reti decentrate: le Poste o i Carabinieri, le banche o le Ferrovie. Resistono i blocchi d’interessi più corposi come università e piccoli ospedali.
La ragione dichiarata di questa furia iconoclasta, supportata da una forte pressione mediatica che ha tramortito l’opinione pubblica, risiede nella sacrosanta campagna anti-sprechi e anti-casta.
Non possiamo affermare che queste istituzioni siano esenti da pecche. Basti pensare alle tante Province inventate solo per moltiplicare l’impiego pubblico, o al drenaggio di risorse camerali dirottate verso le associazioni di cui le Camere sono espressione. Ma si tratta di deviazioni e inconvenienti facilmente riformabili, su cui peraltro si sono utilmente impegnati gli enti interessati, formulando adeguate proposte.
Se dall’attualità politica, passiamo ad affrontare il tema più in generale, la sensazione è che i provvedimenti attuali non ridisegnino una nuova forma di governo del territorio, né rappresentino le proiezioni “fisiche” di una rinnovata architettura istituzionale.
Siamo passati da una lontana stagione in cui tutto era distretto (scolastico, sanitario, persino industriale e turistico) alla fase attuale dove tutto, al contrario, si ridurrebbe – nel migliore dei casi- ad aggregazioni volontarie (di comuni) o ad ambiti funzionali per l’erogazione di servizi.
C’è un evidente difetto interpretativo: la funzionalità non è paradigma sufficiente per progettare l’avvenire di vaste aree urbanizzate, né tanto meno per risolvere adeguatamente le problematiche dell’oggi.
Il vuoto oltre la siepe.
Tagliati i presidi territoriali, cosa resterà ?E opportuno evitare l’inevitabile vuoto cui stiamo andando incontro?
All’“Istituzione”, che racchiude in sé amministrazione e politica, si sostituirebbe il “Consorzio” o persino – come proposto – una “Fondazione” di libere unità amministrative associate, con lo scopo di gestire problemi collettivi, solo perché tali servizi richiedono un’adeguata scala per essere erogati efficacemente. Classico esempio è rappresentato dalla rete dei trasporti urbani per sistemi insediativi ad altissima intensità di pendolarismo (presenti ormai in gran parte del territorio italiano): per funzionare si rende necessaria l’associazione di numerosi comuni in un’unica entità operativa.
Strutture intercomunali sono necessarie, poi, per gestire adeguatamente l’integrazione fra modi diversi di trasporto. Un grande aeroporto è tale solo se connesso alla rete ferroviaria, al reticolo stradale e autostradale, al trasporto locale. Una stazione dell’alta velocità ferroviaria non può vivere senza rapide giunzioni con il suo bacino d’utenza.
Altrettanto vale per la gestione di risorse indispensabili alla vita urbana, quali il complesso ciclo dei rifiuti, l’approvvigionamento idrico e lo smaltimento delle acque reflue, l’energia. Tuttavia ,non si può certo pensare di risolvere questioni così incidenti sulla qualità sociale e sullo sviluppo economico solo sul, pur necessario, piano tecnocratico o aziendalista.
E’ difficile comprendere, inoltre, come potranno essere adeguatamente governate altre importanti funzioni che attengono esplicitamente alle responsabilità decentrate.
C’è una centralità territoriale da attribuire alla scuola e in generale al sistema formativo. Purtroppo, puntare su istruzione, università e ricerca è diventato uno slogan povero di contenuti, con una dialettica ferma alla triste diatriba sull’ammontare dei finanziamenti disponibili. Si è quasi completamente perduto il senso da attribuire alla localizzazione di questo servizio collettivo, cruciale per lo sviluppo civile ed economico.
Ma a ben vedere, ridurre le autonomie istituzionali intermedie presenti sul territorio, trova il suo maggior punto di criticità nella forma assunta, nell’ultimo ventennio, dal processo di urbanizzazione.
Il sostanziale primato del Piano a dimensione comunale o Regionale, lascia senza controllo gli ambiti di livello intercomunale ove “si combatte la lotta per la sopravvivenza ambientale” e si determina la forma insediativa prevalente ormai anche nel nostro Paese. Fra micro e macro, vince il meso e proprio questa scala dimensionale è quella penalizzata dai tagli degli organismi intermedi.
Il lungo ciclo edilizio immobiliare (’98 –’07) ha largamente spostato sul green field dei piccoli comuni una parte consistente degli insediamenti residenziali. La grande distribuzione commerciale ha decentrato i baricentri insediativi all’esterno delle aree a urbanizzazione consolidata.I distretti industriali periferici e le medie città hanno subito un processo di differenziazione, facendo emergere nuove concentrazioni.
A proposito, è utile fare qualche esempio.La città di Varese è riferimento di un comprensorio interconnesso dove vivono 583mila abitanti, ma solo il 36% nel centro principale L’area urbana di Brescia conta 723mila residenti, di cui solo il 35% nel comune capoluogo ( altro mezzo milione di abitanti è collocato nel perimetro della ex-Provincia).L’area urbana di Padova (che comunque dovrebbe essere considerata conurbata con Venezia e Treviso) conta 580mila abitanti di cui il 47% nel comune centrale.
Il governo del territorio richiede,quindi, strumenti, progetti urbanistici, poteri che rappresentino questa diffusa realtà,non circoscrivibile alle aree metropolitane canoniche, istituite più di vent’anni fa e mai realizzate.
Solo aree metropolitane.
L’Italia metropolitana si è, infatti, formata storicamente attraverso due principali processi.L’uno è quello tradizionale di progressivo allargamento delle grandi città ai centri minori limitrofi.L’altro, molto presente nelle aree più sviluppate del Centro-Nord, di saldatura di medie e persino piccole città, secondo andamenti molto differenziati. Circoscrivere il possibile governo delle aree vaste a sistemi metropolitani, selezionati sulla base di una stanca tradizione, condita da qualche politicante furbizia (la promozione di Reggio Calabria) propone un dilemma : queste aree metropolitane o sono troppe o sono troppo poche.
Il solo criterio demografico, appare troppo semplicistico.Le classificazioni internazionali si riferiscono sì a soglie quantitative, ma riguardanti diverse caratteristiche fisiche e demografiche, di concentrazione per particolari funzioni, di consistenti presenze produttive, che diano luogo a un elevato PIL locale, di flussi e connessioni internazionali etc.
In generale, è metropolitana un’area che si presenta come “unità economica funzionale, caratterizzata da nuclei urbani densamente edificati e un hinterland il cui mercato del lavoro sia fortemente integrato con le concentrazioni produttive”. Una quota consistente dei residenti periferici (almeno il 15%) deve essere occupato nelle concentrazioni produttive generalmente terziarie. Non basta, quindi, un comune con un valore minimo di residenti per essere considerati “metropoli”.
La semplificazione con cui si è affrontato, non da ora, il tema metropolitano è dimostrato dalla inconsistenza con cui si è proceduto a definirne i confini.Un compromesso al ribasso li ha fatti coincidere con quello delle abolite Province. Eppure ora si chiamano Città metropolitane.
La rigorosa definizione internazionale ha una validità prevalentemente ordinatoria, necessaria a formulare scenari di riferimento per l’evoluzione della struttura territoriale nel suo insieme, ma non determina quasi mai un univoco sistema ordinamentale.
Se si guarda, infatti, all’esperienza europea risultano particolarmente evidenti le differenze con l’impostazione italiana.Intanto, lo status metropolitano in termini di specialità è riconosciuto in ogni Paese a un numero molto limitato di realtà territoriali. Secondo i criteri internazionali solo Milano, Roma e Napoli (con forse la sola aggiunta di Torino) avrebbero ragione di essere configurati come enti ad assetto amministrativo di tipo “speciale”. Per le altre numerose aggregazioni il problema di gestire unitariamente i fenomeni di trasformazione del territorio dovrebbero trovare una risposta organica,ma ordinaria.
Quanto ai poteri speciali solo Londra vede un governo metropolitano definito per legge dal 2000, con una London Assembly e il sindaco a capo della Greater London Authority.
Il modello delle Città – Stato affonda le sue radici nella storia passata come nel caso delle Stadtstat tedesche. Amburgo ad esempio è una Freie und Hansestadt ricordandoci l’origine Anseatica del suo sviluppo.
Parigi,Vienna o Madrid ricoprono il loro ruolo di metropoli capitali sommando poteri comunali e regionali (Ile de France, Comunidad de Madrid o Land Wien). Altra origine ha invece l’Area Metropolitana de Barcelona che associa volontariamente 36 comuni.
L’esperienza internazionale ci suggerisce, quindi, di non isolare le scelte politico-normative da quelle più strettamente storico- culturali.
Riempire i vuoti culturali.
Per ricercare le soluzioni più efficaci, è innanzitutto necessario interpretare i fenomeni correttamente. Le tendenze in atto tendono a rafforzare, anche in Italia, i punti forti del sistema urbano. Nei prossimi anni il Sud perderà abitanti a favore del Centro – Nord, dove si concentrerà tutta la crescita demografica futura.
Proseguirà il processo di concentrazione nei comprensori metropolitani, sia le 4 Grandi Aree Metropolitane che le aree più diffuse ed economicamente dinamiche (Lombardo –Veneto, direttrice medio Padana, Linea Adriatica, Valle dell’Arno, etc.). Pertanto la scala più adeguata ove sperimentare nuovi modelli di pianificazione varca gli stretti confini comunali, supera la micro conflittualità localistica, nel segno di un effettivo bilanciamento di vantaggi e oneri.
Una sfida politica necessaria a superare la “terra di nessuno” in cui ci troviamo attualmente.
Giuseppe Roma, Censis
at 15:10
Ringrazio l’autore per questo lucido articolo che bene esprime la preoccupazione per la mancanza di governo sui temi di area vasta che si è venuta a creare a seguito della riforma dell’ente intermedio.
Le province possono certo essere utili per svolgere in modo più efficiente e aggregato alcune funzioni delegate loro dai piccoli comuni (per esempio: le gare per opere e servizi), come sottolineato dalla riforma Delrio. Il problema è che i comuni, anche aggregati, non riescono a svolgere quel ruolo di guida sui temi di area vasta che fino a ieri svolgevano le province.
Come sottolinea l’autore questa non è una questione specialistica da addetti ai lavori, da urbanisti. La pianificazione territoriale non ha la bacchetta magica per risolvere la crisi economica, ma può creare condizioni di maggiore efficienza nei territori, di maggiore accessibilità, di migliore qualità ambientale e paesaggistica, che sono fattori importanti per attrarre attività produttive e aiutarle a prosperare.
Marco Pompilio