di: Giampaolo Nuvolati
EyesReg, Vol.4, N.5 – Settembre 2014.
L’emergere di nuove forme di socializzazione in ambito urbano sembra aver trovato negli ultimi anni crescente attenzione. Molte città sono oggi interessate da processi di riqualificazione fisica e sociale dei quartieri che passano attraverso forme di consultazione e partecipazione con i cittadini. In questa breve nota si intendono identificare i principali fattori che hanno favorito lo sviluppo di una serie di iniziative a livello locale capaci di migliorare la qualità della vita dei quartieri, con un richiamo particolare alle social street come esempio virtuoso di iniziative promosse “dal basso”.
Il primo punto sul quale occorre riflettere riguarda l’equilibrio tra i fenomeni che a partire da Anthony Giddens (1994) chiamiamo di disembedding e di re-embedding. Con il primo termine si intende l’enucleazione delle relazioni umane dai più tradizionali contesti spazio-temporali. Soprattutto grazie alla tecnologia oggi possiamo colloquiare con persone localizzate in qualsiasi luogo e in qualsiasi orario. Questo processo ha determinato forme di capitale sociale con legami piuttosto deboli a forte delocalizzazione – quelle che Melvin Webber già nel 1963 chiamava community without propinquity – e per converso la necessità di re-embedding cioè di ritornare a costruire comunità fondate territorialmente. L’essere umano per sua natura e nonostante l’ampliarsi geografico del suo raggio di azione prova, infatti, un bisogno di appartenenza che rimanda a comunità radicate. Alcune sperimentazioni come le social street (esperienza nata a Bologna in Via Fondazza nel 2013, ma poi diffusasi in tutta Italia) hanno saputo tenere insieme proprio le potenzialità del disembedding e del re-embedding. Le comunità nate in rete hanno infatti trovato una declinazione fisica, immediata nella strada in cui vivevano i soggetti iscritti alla rete stessa. L’insistenza sui luoghi è fondamentale per una reale personalizzazione dei rapporti che vi si incardinano. Dalla community without propinquity si è così tornati alla community with propinquity. In realtà questa situazione non è nuova nei contesti urbani. Herbert Gans e Oscar Lewis in polemica con Louis Wirth e Robert Redfield, già negli anni ’50 e ‘60 sostenevano che in città si possono ricostruire legami di vicinato, reciprocità e solidarietà simili a quelli delle società contadine pre-moderne e viceversa in molti villaggi rurali non esiste quella dimensione solidaristica che ci si potrebbe aspettare (Saunders, 1989). In sintesi problemi come l’anomia, gli scarsi contatti, la devianza criminale, etc. non sarebbero propri della città tout-court ma solo di alcune zone ad alta instabilità residenziale e con la presenza di ceti particolarmente poveri. Esistono, piuttosto, tracce di urbanità nel rurale e tracce di ruralità nell’urbano. Laddove i quartieri restano abitati da un ceto medio, con un livello di istruzione medio-alto, una certa stabilità residenziale (anche in termini d’identità con il quartiere) ed una serie di valori condivisi, il terreno è fertile perché si generino situazioni di aggregazione che richiamano quelle di contesti non urbani. Gans conia a questo riguardo il termine di rapporti “quasi primari” – a metà tra quelli primari-familiari e quelli con gli enti e le istituzioni – per indicare il tipo di relazioni che si determinano in alcuni quartieri.
Negli ultimi anni sono cresciute le forme di partecipazione, di azioni sociale promosse a livello di società civile. Tale fenomeno è riconducibile a cause socio-economiche abbastanza precise. La prima è l’incapacità-impossibilità del welfare state tradizionale di fornire servizi adeguati ad alcuni gruppi deboli di popolazione. La seconda causa è che le famiglie stesse, un tempo motore dello sviluppo e della coesione sociale, oggi sono interessate da fenomeni di crisi economica, indebolimento dei valori, individualizzazione delle pratiche di vita quotidiana che vengono a ledere profondamente quelle forme di reciprocità, aiuto e sostegno che in parte supplivano alle carenze dello stato assistenziale. E’ dunque nei gruppi di livello intermedio (rapporti “quasi-primari”), nella comunità, nelle organizzazioni che l’individuo cerca un appoggio. Ciò avviene sempre più in una ottica non tanto o soltanto mirata alla soluzione di un problema specifico in una prospettiva strumentale di tipo nimby (not in my backyard), ma piuttosto che tende a proporre modelli di socializzazione a più lungo termine. Le social street in quanto orientate a favorire una continuità nel tempo delle relazioni indipendentemente dalla urgenza dei problemi rispondono a questa filosofia. Come osservava Jane Jacobs nel suo famoso testo Vita e morte delle grandi città (2009, 27): «Le strade e i marciapiedi costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali. Quando si pensa a una città, la prima cosa che viene alla mente sono le sue strade: secondo che esse appaiano interessanti o insignificanti, anche la città appare tale». Strade da mantenere vive, abitate, occasione di scambio e in tal modo più sicure.
Occorre poi aggiungere che si è sviluppata negli individui la capacità, soprattutto attraverso la tecnologia, di gestire in forma relativamente autonoma, situazioni complesse, di elaborare risposte mirate e condivise a vantaggio di una collettività allargata – un esempio tra i tanti in questo senso è la banca del tempo che vede gli individui scambiarsi prestazioni in base alle proprie capacità: dunque un sistema non regolato dal denaro ma del tempo che ciascuno mette a disposizione –. A questa aumentata capacità auto-organizzativa si contrappongono i limiti gestionali e di risorse della Pubblica Amministrazione che però nella misura del possibile cerca di supportare e accompagnare queste iniziative in un’ottica di sussidiarietà. Di fatto, si generano culture politiche-amministrative favorevoli a processi di riqualificazione dei quartieri non soltanto in termini fisici ma anche sociali e culturali, cresce una sensibilità e legittimazione nei confronti della innovazione sociale promossa dai cittadini (Sclavi, 2002).
Anche le università e gli istituti di formazione stanno fornendo il loro contributo alla innovazione sociale, offrendo insegnamenti e attività di ricerca atte a preparare persone (facilitatori, mediatori, assistenti sociali, operatori in vari servizi) capaci di progettare, promuove, implementare e valutare i processi sopra descritti. La crescita dell’associazionismo, del volontariato, del terzo settore sono ulteriori indicatori che rinforzano questa tendenza attraverso la professionalizzazione di coloro che operano sul territorio a stretto contatto con le realtà locali.
Infine, si moltiplicano le esperienze di innovazione sociale e partecipazione realizzate in altre città o Paesi del mondo: esperienze cui è possibile guardare come best-practices, sebbene non siano automaticamente trasferibili in tutti i contesti ma presuppongano operazioni di adattamento a seconda delle caratteristiche dei luoghi. Stesso discorso vale per la comparazione delle politiche pubbliche promosse nei vari Paesi europei, con varie ricadute a livello di quartieri (Kesteloot, 2002). Peraltro, anche a livello locale-nazionale, comincia ad esistere un repertorio storico delle iniziative messe in campo negli ultimi anni, dunque un patrimonio di dati, testimonianze, know how cui attingere per avviare nuove forme di innovazione sociale.
L’insieme di questi fenomeni presenta anche rischi, risolvi negativi, resistenze e di fatto richiama problematiche più generali sullo sviluppo delle città.
Accade ad esempio che le istituzioni (governo ed enti locali), giustificandosi con la scarsità delle risorse, si possono deresponsabilizzare eccessivamente, caricando di troppi impegni e obblighi la società civile, i singoli cittadini nella ricerca di soluzioni volte a migliorare la vivibilità delle città.
Nello stesso tempo, l’eccessiva auto-organizzazione e auto-gestione degli spazi urbani, anche in una prospettiva di consolidamento della identità, può presentare forme di conflitto internamente al quartiere espresse da parte di coloro che, non ritenendosi coinvolti o rappresentati, chiamano di nuovo in causa la pubblica amministrazione: è questo l’ormai noto dilemma che mette a confronto la democrazia rappresentativa con quella diretta o partecipativa (Moini, 2012).
Inoltre, alcune forze esterne giocano in direzione opposta alla produzione di attività sociali a livello di quartiere. Basti pensare a come il commercio di vicinato nelle botteghe dei quartieri sia contrastato dal proliferare di supermercati e centri commerciali che offrono prezzi indubbiamente più vantaggiosi e migliori comodità di acquisto. Nuove modalità di vendita e di patti tra commercianti e residenti sembrano costituire un possibile asse attorno al quale ripensare le attività di acquisto e consumo. Aspetto collegato da tenere in considerazione riguarda la estrema “spugnosità” delle città moderne, che assorbono quotidianamente grandi quantità di popolazioni in entrata: pendolari, city users, turisti, uomini d’affari, cioè soggetti che non vivono in città, ma la usano e la consumano, spesso condizionando fortemente la connotazione dei quartieri, lo stile di vita dei residenti, l’uso dei servizi (Nuvolati 2007). Di fatto queste popolazioni non residenti, presentando esigenze specifiche, costituiscono tanto risorse quanto motivo di conflitto nei confronti degli abitanti di alcuni quartieri, soprattutto di quelli centrali-storici.
Vi è poi il rischio che alcune iniziative siano ad esclusivo appannaggio di segmenti élitari di popolazione (se non sotto il profilo economico, quantomeno sotto quello culturale), mentre altri siano sempre più sospinti verso aree di marginalità sociale. Processi di gentrificazione eccessiva dei quartieri, tesi a smantellare completamente un tessuto sociale preesistente, svolgono un’azione contraria a questo processo di assestamento di una comunità locale, sebbene sia impensabile pensare a realtà completamente stabili nel tempo. Un caso emblematico è quello di New York dove l’imborghesimento di molti ex quartieri popolari di Manhattan ha generato stili di vita forzatamente autentici ma in realtà molto lontani da quel che resta della vecchia anima dei quartieri (Zukin, 2010).
Stesso discorso vale per i quartieri potenzialmente caratterizzati dalla presenza di risorse e forme di auto-organizzazione che fanno immaginare mappe a macchie di leopardo, e prefigurare disuguaglianze socio-spaziali cui solo una pianificazione complessiva, di tutta la città, può porre rimedio. Rispetto a questo problema si evidenziano oggi due approcci – quello teleocratico (assistenzialista e interventista) cui si contrappone un approccio di tipo nomocratico, in cui agli enti pubblici spetta principalmente il compito di garantire le libertà dei singoli nel perseguire obiettivi specifici nel rispetto di regole generali – da cui derivano altrettante visioni urbanistiche (Moroni, 2013).
I processi di innovazione sociale che caratterizzano le città e i loro abitanti e che coinvolgono più o meno direttamente le istituzioni locali sembrano oggi costituire una occasione interessante per migliorare la vivibilità delle città stesse. Buona parte della retorica sulle smart cities (Santangelo et al., 2013) asseconda ampiamente questa visione lasciando intravvedere azioni concrete capaci di coniugare sviluppo tecnologico e partecipazione dei cittadini. Il clima sociale, culturale e amministrativo è particolarmente favorevole ed è il frutto sia di antiche pratiche relazionali che hanno da sempre trovato realizzazione in ambito urbano, sia di contingenze attuali che chiamano in causa proprio i cittadini come attori/comunità capaci di rimediare alle lacune socio-economiche che caratterizzazione l’offerta di servizi pubblici, piuttosto che quelli prodotti dalla famiglia tradizionale. Se in particolare le social street, sapranno costituire esperienze durature nel tempo – proseguendo dunque oltre la fase iniziale di entusiasmo che solitamente caratterizza le attività più spontanee e scarsamente istituzionalizzate – esse potranno rappresentare momenti particolarmente significativi nella costruzione di nuove forme di capitale sociale. Un capitale sociale che si realizza avendo come mossa di riferimento fondante la residenza nel quartiere, dunque in una ottica di contatti diretti (tra soggetti e con lo spazio) che l’uso abbondante della tecnologia virtuale sembrava aver relegato in secondo piano.
E’, per concludere, da osservare che la filosofia della innovazione sociale non ha ancora innescato la formalizzazione precisa dei processi partecipativi. L’iniziativa è spesso lasciata alle realtà locali e i contenitori e le modalità di gestione della partecipazione cambiano da contesto a contesto, anche alla luce di circostanze particolari, quali la presenza di associazioni di lungo corso o di figure leader nella cittadinanza, la tradizione amministrativa della città, le contingenze economiche, etc. etc.. Alcune regioni, come la Toscana, sono già a buon punto in termini di legiferazione sulla partecipazione, altre scontano un certo ritardo, o confidano in forme varie di spontaneismo. In ogni caso il passaggio da una pianificazione operativa, volta a risolvere in chiave tecnicistica le urgenze, ad una strategica (di particolare rilievo è il caso torinese), capace di contemplare una visione più complessiva, partecipata e a lungo termine del benessere socio-economico di una collettività – filosofia che ha ispirato anche i finanziamenti europei a partire dai PIC-Urban in poi – costituisce un passaggio imprescindibile per l’attivazione di politiche pubbliche orientate a rispondere effettivamente e in modo sostenibile ai bisogni delle popolazioni.
Giampaolo Nuvolati, DSRS – Università Milano Bicocca
Riferimenti bibliografici
Giddens A., 1994, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna.
Jacobs J., 2009, Vita e morte delle grandi città: saggio sulle metropoli americane (1961), Einaudi, Torino.
Kesteloot C. (ed.), 2002, Urban Territorial Policies and their Effects at the Neighbourhood Level, Urbex n° 21, Fourth RTD Framework Programme Targeted Socio-Economic Research (TSER), AME, Amsterdam.
Moini G., 2012, Teoria critica della partecipazione, Franco Angeli, Milano.
Moroni S., 2013, La città responsabile, Carocci Editore, Roma.
Nuvolati G., 2007, Mobilità quotidiana e complessità urbana, Firenze University Press, Firenze.
Santangelo M., Aru S. e Pollio A. (a cura di), 2013, Ibridazioni, innovazioni e inerzie nelle città contemporanee, Carocci, Roma.
Saunders P., 1989, Teoria sociale e questione urbana, Edizioni Lavoro, Roma.
Sclavi M., 2002, Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, Eleuthera, Milano.
Webber M., 1963, “Order in diversity: Community without propinquity”, in L. Wingo (Ed.), Cities and Spaces, Johns Hopkins Press, Baltimore.
Zukin S., 2010, Naked City: The Death and Life of Authentic Urban Places, Oxford University Press, New York.