di: Alessandro Sterlacchini
EyesReg, Vol.4, N.6 – Novembre 2014.
Nel corso degli ultimi venti anni le politiche industriali comunitarie a sostegno della crescita economica hanno giocato un ruolo marginale, mentre l’obiettivo della stabilità è stato perseguito con particolare vigore. Ciò è avvenuto sia prima che, soprattutto, dopo la crisi del 2008, allorquando è prevalsa la linea dell’austerità.
I vincoli e gli stimoli europei
Europa 2020 sopperisce ad alcune carenze presenti nella precedente (e fallimentare) strategia di Lisbona stabilendo, ad esempio, un numero ridotto di target a sostegno di crescita, occupazione, ambiente e inclusione sociale. Tra questi, il cosiddetto “industrial compact” si propone di invertire il declino del settore manifatturiero riportando, nel 2020, il suo peso al 20% del PIL europeo (attualmente al 16%). Questo obiettivo si presta a due ordini di problemi. In primo luogo, come per tutta la strategia Europa 2020, le risorse finanziarie messe in campo appaiono del tutto inadeguate. Per rilanciare gli investimenti, oltre ad allentare i vincoli del fiscal compact, occorre attivare altri canali sia a livello comunitario che nazionale (su questi aspetti rinvio a Cappellin et al., 2014; e Pianta, 2014). Secondariamente, l’enfasi sul target quantitativo rischia di mettere in secondo piano le modalità con cui lo si può perseguire. E’ credibile e sostenibile per i paesi “deboli” della UE una strategia di rilancio della manifattura basata sul contenimento dei costi e, quindi, sulla riduzione dei salari? Evidentemente no, a meno che non scelgano di ridurre il PIL pro capite accentuando i divari già presenti nell’Unione e rendendone sempre più prossima la dissoluzione. Come sostiene Aiginger (2014) una politica industriale di “basso profilo”, basata sulla competitività di prezzo, non è appropriata per le economie avanzate d’Europa che, invece, dovrebbero privilegiare l’innovazione, l’accrescimento delle competenze dei lavoratori, la qualità dell’ambiente e della vita. In un’ottica di medio-lungo periodo, anche i paesi con elevato debito pubblico, come l’Italia, devono puntare a politiche di “alto profilo”.
Riconosciuti i limiti delle politiche comunitarie, dobbiamo però evidenziare che non tutti i paesi della UE hanno rinunciato ad adottare misure efficaci di politica industriale, intesa in senso ampio. Considerando il periodo precedente la crisi, Buiges (2011) ha distinto i principali paesi europei che, a fronte della crescente concorrenza dei paesi emergenti, hanno aumentato o diminuito la loro competitività. Tra i primi vi sono Germania, Austria, Svezia e Finlandia; tra i secondi Francia, Regno Unito, Spagna e Italia. I paesi del primo gruppo registrano salari superiori alla media UE, investono più risorse nella R&S e sostengono con maggiori sussidi la tutela dell’ambiente, il risparmio energetico e le fonti rinnovabili. L’Italia non ha seguito lo stesso percorso, e non sembra cambiare verso.
Il dibattito in Italia
Per quanto riguarda l’intensità delle spese in R&S sul PIL, l’obiettivo dell’Italia per il 2020 è l’1.53%, vale a dire una percentuale di poco superiore a quella registrata nel 2008 (1.2%). E’ ovvio che per il nostro paese il target del 3% fissato per l’intera UE sarebbe del tutto velleitario, ma stabilirne uno così basso assomiglia a una specie di resa. Il fatto che pochi osservatori lo abbiano notato e nessuno stigmatizzato dimostra quanto sia difficile elevare il livello del dibattito nazionale. Il compito è arduo anche perché i media danno ampia risonanza agli “studi” degli economisti liberisti di casa nostra, il cui unico scopo è quello di smantellare qualsiasi politica economica che non abbia come obiettivo quello di ridurre le tasse e la spesa pubblica. A tale riguardo, il “rapporto Giavazzi” sugli incentivi alle imprese (si veda, per una sintesi, Giavazzi e Schivardi, 2012) e il recente atto di accusa di Perotti e Teobaldi (2014) sul “disastro dei fondi strutturali” sono emblematici. Gli economisti che, con cognizione di causa, si occupano di incentivi alle imprese e valutazione delle politiche regionali hanno reagito sottolineando le gravi inesattezze e argomentazioni prive di fondamento contenute in entrambe i contributi (Brancati, 2012; Sterlacchini, 2012; Garnero, 2014; Martini e Sisti, 2014; Rettore et al., 2014). Ciononostante, stentiamo ancora a veicolare nel discorso pubblico un messaggio alternativo: che anche sulla base dell’esperienza italiana politiche industriali di alto profilo sono non solo auspicabili ma possibili.
Scelte selettive, valutazione e trasparenza
Secondo i nostrani economisti liberisti, il principale motivo ostativo delle politiche industriali e regionali in Italia è che queste si sono già dimostrate fallimentari e, quindi, lo sarebbero anche in futuro vista l’endemica incapacità della pubblica amministrazione centrale e, soprattutto, locale, di gestire le risorse pubbliche in modo trasparente, efficiente ed efficace. L’approccio corretto dell’economista, invece, dovrebbe essere quello di contrapporre ai “fallimenti pubblici” i casi di successo e le buone pratiche, indentificando i fattori che spiegano perché una stessa tipologia di intervento pubblico è risultata del tutto inefficace in alcuni contesti, o per alcune categorie di beneficiari, mentre in altri casi ha dato luogo a risultati positivi. I motivi degli insuccessi potrebbero essere di diversa natura (risorse inadeguate, selezione dei beneficiari poco mirata, distribuzione clientelare dei finanziamenti, ecc.) e la loro identificazione è cruciale per riprogettare l’intervento oppure annullarlo spostando le risorse su altre misure. Quello esemplificato è il circuito della valutazione delle politiche pubbliche che va applicato, perlomeno a quelle che assorbono maggiori risorse, in modo stringente e con metodologie rigorose (approccio controfattuale incluso). Anche in Italia, seppur in modo non generalizzato, questa attività di valutazione è già stata svolta. Ad esempio, sono stati pubblicati numerosi studi di valutazione controfattuale degli interventi nazionali e regionali a sostegno della R&S e dell’innovazione (cfr. Sterlacchini, 2014). Tuttavia, nessun organismo pubblico si è preoccupato di esaminarli in modo sistematico, non solo per verificare che i casi di successo prevalgono sui fallimenti, ma soprattutto per estrarne indicazioni utili per la progettazione di interventi futuri. La stessa cosa andrebbe fatta per i più diffusi interventi di politica industriale e regionale. Solo così avremo una base informativa per stabilire quanto di quello che è stato fatto in Italia va perseguito con maggiore vigore e quanto, invece, è opportuno emendare o azzerare. Altrettando utile sarebbe che dallo stesso esercizio emergessero indicazioni relative ad aspetti procedurali e di governance delle politiche. Su questo fronte, la principale questione irrisolta resta il coordinamento tra governo nazionale e governi regionali, senza il quale la dispersione, sovrapposizione e duplicazione degli interventi pubblici saranno inevitabili, prestando chiaramente il fianco a chi li vuole eliminare. Cavalcando lo scarso credito che, attualmente, le amministrazioni regionali godono tra i cittadini, aumentano le spinte all’accentramento degli interventi pubblici in capo al governo nazionale. Questa tendenza va a mio avviso combattuta non solo perché non conforme al disegno istituzionale delle politiche strutturali della UE, ma in quanto mette a repentaglio l’efficacia delle stesse politiche nei diversi territori. La politica industriale, infatti, può basarsi solo in minima parte su strumenti automatici gestibili da un’autorità centrale, ma deve privilegiare interventi selettivi che, seppur coordinati a livello nazionale, devono essere progettati e amministrati nei diversi contesti territoriali (si veda Cappellin et al., 2014). Selezionare significa scegliere, e nel farlo si può incorrere in errori i quali, tuttavia, possono essere corretti se si svolgono rigorose attività di monitoraggio e valutazione in itinere. Tutto questo processo, dalle scelte iniziali agli esiti finali, rende ineludibile il ruolo e la responsabilizzazione delle amministrazioni locali e va comunicato in modo chiaro ai cittadini. Scelte selettive, valutazione e trasparenza sono i punti fermi sui cui insistere per un rilancio della politica industriale in Italia.
Alessandro Sterlacchini, Università Politecnica delle Marche
Riferimenti bibliografici
Aiginger K. (2014), Industrial policy for a sustainable growth path, wwwforeurope policy paper No. 13.
Brancati R. (2012), I sussidi all’industria, un po’ di chiarezza, Sbilanciamoci.it 18.09.12
Buiges P. (2011), L’industrie dans le pays européens: des gagnants et the perdants face à la montée des pays emergents, Revue d’économie Industrielle, No. 136, pp. 199-210.
Cappellin, R., Marelli E., Rullani E., Sterlacchini A. (2014), Crescita, investimenti e territorio: il ruolo delle politiche industriali e regionali, Website “Scienze Regionali” (www.rivistar.it), eBook 2014.1
Garnero A. (2014), Fondi strutturali: un’idea di Europa, lavoce.info 18.07.14.
Giavazzi F., Schivardi F. (2012), Un taglio ai sussidi per ridurre le tasse, lavoce.info 06.09.12.
Martini A., Sisti M. (2014), La valutazione dei fondi strutturali e la cultura dell’aria fritta, lavoce.info 18.07.14.
Perotti R., Teobaldi F. (2014), Il disastro dei fondi strutturali, lavoce.info 03.07.14.
Pianta M. (2014), An industrial policy for Europe, Seoul Journal of Economics, Vol. 27, No.3, pp. 277-305.
Rettore E., De Poli S., Schizzerotto A. (2014), Corsi Fse: la valutazione porta chiarezza. lavoce.info 10.07.14.
Sterlacchini A. (2012), Taglio ai sussidi alle imprese: quale evidenza? lavoce.info 14.09.12.
Sterlacchini A. (2014), La politica industriale tra i vincoli e gli stimoli europei e l’attacco degli economisti liberisti. Contributo presentato alla Conferenza scientifica annuale dell’AISRe, Padova, 12 settembre 2014.