di: Ugo Baldini
EyesReg, Vol.5, N.5, Settembre 2015.
In un Paese come l’Italia, che ha conosciuto una estrema antropizzazione (che fatica a mantenere) e oggi sconta differenze di sviluppo rilevanti e crescenti, pensare ad una politica delle aree interne, quelle più periferiche rispetto alle concentrazioni urbane, è indispensabile. Ponendo subito il tema di uno sviluppo originale e di una pianificazione attenta alle differenti suscettività, e alla parte innovativa dei sistemi e degli attori locali.
Una pianificazione territoriale che non è (solo) un sistema di regole, ma che propone un complesso articolato e integrato di azioni positive e coerenti che vogliono raggiungere uno o più obiettivi, di assetto, di sviluppo, di sostenibilità, condivise e sostenibili. E naturalmente durature.
Un campo di politiche integrate che, dopo la stagione fondativa degli scenari del Progetto 80 sino ai piani comprensoriali, è rimasto al palo, sovrastato dall’irrompere generoso del modello di Piano fatto di “Indirizzi, Direttive e Prescrizioni” che portava la pianificazione fuori dalla valutazione della strategia/fattibilità per consegnarla ai soli giudizi di valore.
Oggi la evidente perdita di efficacia della missione del Piano, deve tornare a praticare, per rigenerarsi, il campo delle politiche, della loro integrazione efficiente, per misurarsi con realismo ed ambizione in una azione necessaria e fortemente sollecitata dalla programmazione europea sui temi dello sviluppo locale e della cooperazione.
Misurandosi in questo con i processi reali di trasformazione e con i luoghi entro cui e con cui questi si manifestano, agendo sulle fattibilità e sulla condivisione per ottenere un risultato concreto e monitorabile negli esiti.
Le risorse in gioco
Nel novero dei “processi reali” che le politiche territoriali incontrano in questo scorcio iniziale del secolo, cosi segnato dalla crisi e dalla incertezza e fragilità delle risposte istituzionali, c’è sicuramente – ed è in primo piano – la nuova stagione di programmazione comunitaria 2014-2020.
In primo piano per l’importanza delle risorse in gioco (in un panorama che di risorse per gli investimenti è oggi decisamente povero, ma lo sarà domani e forse anche dopodomani), ma anche per il maggior rilievo che la dimensione europea assume nella vita quotidiana dei cittadini e delle imprese (se la situazione non precipita).
Le due “politiche territoriali” che la programmazione comunitaria assume esplicitamente (quanto meno per le regioni del nord) sono L’Agenda Urbana e la Strategia Nazionale delle Aree Interne (la terza essendo appunto il Mezzogiorno).
Politiche “territoriali” perché richiedono processi di integrazione spaziale delle diverse azioni di investimento “settoriale”, ma anche perché esprimono un approccio “place based” allo sviluppo regionale, consapevole che le ragioni del successo di una strategia di sviluppo locale stanno innanzitutto nella capacità di interpretare positivamente la peculiare configurazione della formazione sociale presente in un luogo e nel rapporto che questa è capace di immaginare con le risorse territoriali, infrastrutturali e organizzative, sedimentate e rese disponibili dai processi di mercato e dalle politiche pubbliche, mobilitandole entro una prospettiva di azione originale, condivisa e responsabile.
Certo, la tentazione di far marciare le risorse comunitarie fuori da qualsiasi percorso di (faticosa) integrazione reale, relegata alla sola retorica dei preamboli è forte, nelle Regioni e nei Ministeri, presso quelle Autorità di gestione che poco apprezzano il disturbo di decisioni sottratte alla automaticità routinaria (e talvolta un po’ opaca) dei bandi e delle regole astratte (e talvolta incomprensibili) che li governano.
Decisioni sottratte proprio per essere affidate invece alla discrezionalità responsabile di una decisione politica (una azione di pianificazione, appunto) che debba argomentare in modo trasparente le proprie decisioni.
Scenari per un piano nuovo
C’è una seconda importante considerazione preliminare ad ogni ripresa di attenzione sulla pianificazione territoriale da tenere bene in conto nell’immaginare un possibile percorso di ri-valorizzazione del piano (e in particolare nella sua necessaria dimensione intercomunale), ed è quella che attiene lo scenario istituzionale.
Scenario quanto mai mutevole, ed incerto, in questa fase della vita politica del Paese; scenario che si evidenzia come condizione di criticità e al contempo come possibile opportunità.
Una criticità che può trasformarsi in vantaggio se la pianificazione territoriale (con il patrimonio di cultura geografica di cui è portatrice) sa inserirsi con accortezza e senso di opportunità nel processo di riorganizzazione territoriale aperto dalle scosse impresse alle istituzioni dalle diverse iniziativa di riforma. Riforma istituzionale ed operativa, dalla costituzione delle Città Metropolitane alla riconfigurazione delle Province come enti di secondo grado, dalla riforma del Titolo V della Costituzione al riaccorpamento di autonomie funzionali come le Camere di Commercio. Iniziative che sicuramente produrranno un rivolgimento dell’intero assetto politico e istituzionale, fin qui ancora fortemente modellato attorno alla dimensione provinciale.
La situazione che si prospetta ci chiede di prestare una rinnovata attenzione alle politiche territoriali “sostantive”, verso cui ci indirizza una considerazione non burocratica della nuova stagione di programmazione comunitaria, con le sue implicazioni strategiche, e – contestualmente – ci chiede di raccogliere l’esigenza, davvero pressante, di costruire una governance territoriale minimamente efficace ed attrezzata per far fronte alle sollecitazioni presenti nello scenario locale per effetto del cambiamento globale.
Questo intreccio di opportunità (fare le riforme per ottenere una maggiore efficacia della azione pubblica) pone decisamente il tema della intercomunalità, e dei suoi strumenti operativi, al centro dell’attenzione delle istituzioni locali e regionali, rinnovando i loro processi decisionali in una stagione che sperabilmente deve proporre forti elementi di discontinuità e di innovazione.
L’intercomunalità è oggi sicuramente una esigenza pressante generata dai processi di territorializzazione, sempre meno confinabili nella loro dimensione “locale” entro confini comunali che non racchiudono più lo spazio della vita quotidiana dei cittadini, come il dibattito sul tema dei sistemi locali del lavoro ha messo sempre più in evidenza.
L’intercomunalità è una esigenza verso cui premono istanze di razionalizzazione e di efficienza della spesa, ora ampiamente introdotte nell’ordinamento, cui però debbono corrispondere reali processi di ridefinizione dell’identità e del civismo locale.
L’intercomunalità non può essere generata solo dal bisogno di risparmiare, e deve trovare alimento e sostegno nella condivisione di un progetto, un progetto di sviluppo e di accesso a un più ampio spettro di opportunità per i cittadini e per le imprese che la coalizione locale deve sollecitare, riconoscere, accompagnare.
Una occasione speciale da cogliere
È qui che il tema dell’intercomunalità intercetta quello delle politiche comunitarie, e può trovare in queste politiche occasioni di progettazione e di sperimentazione: di nuove forme, ma soprattutto di nuovi contenuti, nuove occasioni.
Occasioni da cogliere per affrontare la “sfida delle aree interne” a costruire coalizioni locali fortemente coese attorno a percorsi di sviluppo originali e autocentranti, che rendano attrattivi i territori “esclusi” dalle concentrazioni e dall’infittimento delle relazioni metropolitane, rendondoli unici ed “inclusivi”.
Occasioni con cui è necessario misurarsi (con diplomazie forse ancora più complesse, che la storia urbana ha diversificato nel Paese, come dimostra Carlo Trigilia (2015)), per promuovere, anche all’esterno delle nuove città metropolitane, reti interurbane adeguate.
Reti interurbane che possono, per massa critica ed ampiezza della gamma funzionale, ospitare le innovazioni territoriali di maggiore portata, sempre più necessarie sul fronte della logistica e delle infrastrutture, come su quello delle istituzioni culturali e delle politiche formative o delle pratiche del welfare, così da poter partecipare a pieno titolo alla rete urbana europea.
Occasioni dove sempre la sussidiarietà può giocare in luoghi diversi un ruolo fondamentale nel generare forme di coesione e rapporti generativi che sostengano una nuova stagione di crescita e di benessere (più equo e temperato).
Riprogettare – nella crisi – nuovi modi di ri-abitare il Paese, dalle periferie meno felici delle città, alle aree più periferiche del rurale, è la scommessa che le nuove occasioni urbane e rurali ci offrono e richiede una capacità di riforma di tutte le istituzioni (e dei loro membri) non più dilazionabile.
Prospettiva non facile di una rigenerazione “senza più incertezze” del Paese, che richiama alla responsabilità, anche nel riformare se stessa, l’intera classe dirigente, nelle istituzioni, nelle imprese, nelle accademie e nelle professioni, prima che sia troppo tardi.
Per riabitare il Paese
Un Paese che sconta il decollo delle città metropolitane dopo venticinque anni di gestazione (sapendo di doversi liberare da una dimensione che nasce su base provinciale), rischia di non valorizzare un patrimonio di città “non metropolitane” che porta su di se una parte rilevante della popolazione e della tradizione civile ed produttiva.
La questione urbana deve sciogliere ancora molti nodi organizzativi e mentali che forse impediscono di distinguere in modo efficace le politiche urbane diffuse dalle (molto più limitate) politiche metropolitane.
Ma è la grande estensione delle aree periferiche ed ultra periferiche che richiede una azione di sostegno particolare che assume i diritti di cittadinanza (salute, istituzione, comunicazione, mobilità, nuova amministrazione) come condizione fondamentale per riabitare una parte rilevante del Paese, la parte agro-naturale e delle piccole città e borghi, da rigenerare come parte essenziale della salute del Paese del suo benessere e del suo futuro.
La parte che fornisce quei servizi eco-sistemici che sono la garanzia del benessere e della sicurezza di un Paese che voglia essere attrattivo e voglia praticare strategie di successo, diffuse, inclusive, e non “a macchia di leopardo metropolitano”.
Servizi progettati senza importare (e applicare) gli standard delle aree dense e magari congestionate, proponendo un modo appropriato “e speciale” di vivere, di produrre, di valorizzare lo scambio di risorse (il cibo per primo) che avviene con le città (che devono disporsi a pagare …).
Modi appropriati che devono recuperare saggezze antiche oggi disperse, con modi nuovi di vivere con l’innovazione tecnologica senza “divisioni digitali”, sviluppando forme di sussidiarietà solidali e cooperative, dalla manutenzione, all’ospitalità, alla gestione di beni comuni, alla cura del corpo e dello spirito.
La ricchezza dei sistemi insediativi, che nelle aree intense conta il 75% della popolazione e il 35% della superficie, e nel rurale (periferico e no) conta il 25% della popolazione con il 65% del territorio da governare (tav.A), con storia, culture e paesaggi diversi, non va dispersa.
Paesaggi diversi come le dinamiche che li hanno marcati anche di recente, segnando come problematico almeno un terzo del territorio nazionale, in prevalenza al Sud (tav. B), che richiedono un’azione costante per “ri-abitare” il Paese, per metterlo in rete, per scoprire nuove opportunità territoriali da offrire al mondo.
Città metropolitane, rete urbana e aree interne (tav.A)
Le prospettive dello sviluppo locale: i sistemi locali da innovare (tav.B)
Ugo Baldini, CAIRE Urbanistica
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at 07:37
Ad integrazione dell’articolo segnalo il volume “Spopolamento e disurbanizzazione in Calabria. Stategia di rigenerazione urbana” 2013, Iiriti editore, a cura di Maria Adele Teti, che è un approfondito studio sulla Calabria e una riflessione su posibili strategie da implementare. Lo studio presentato è un quadro nazionale esaustivo ed indispensabile per capire l’effettiva portata del problema.