di: Gianfranco Viesti
EyesReg, Vol.6, N.1, Gennaio 2016
L’Italia ha ancora una politica di sviluppo per le sue regioni più arretrate (Mezzogiorno), così come previsto dall’articolo 117 della Costituzione? La domanda è opportuna, perché si tratta di una politica necessaria; molto importante per il rilancio del paese. Necessaria perché le condizioni dei contesti economici e sociali al Sud (infrastrutture e servizi) sono ancora assai peggiori rispetto alla media italiana, che è a sua volta spesso inferiore a quella europea; perché occorre contrastare fenomeni di polarizzazione delle attività economiche, particolarmente forti in Italia, che ostacolano gli investimenti privati nelle aree deboli; perché il quadro internazionale, anche europeo, ha notevolmente incrementato la “concorrenza localizzativa” fra le aree deboli; non da ultimo, perché le politiche dell’austerità stanno incrementando i divari regionali, e il Sud ha andamenti economici pessimi dal 2010 in poi (1). Una politica molto importante: perché uno sviluppo delle aree deboli può accelerare di molto la ripresa dell’intera economia nazionale, diffondendo i suoi effetti nell’intero paese: si pensi solo che 100 euro di investimenti al Sud attivano oltre 40 euro di produzione al Centro-Nord (2).
Ma vi sono forti dubbi che questa politica esista ancora. In primo luogo guardando ai numeri. Le risorse aggiuntive per il Mezzogiorno (fondi europei, cofinanziamento, FAS-FSC) erano il 2,1% della spesa pubblica primaria italiana nel 2000-02 e sono l’1,1% nel 2011-13; in euro costanti (2005) scendono da 11,8 a 7,1 miliardi (dati Agenzia per la Coesione Territoriale su CPT). Nel periodo più recente la spesa pubblica complessiva (aggiuntiva e ordinaria) in conto capitale al Sud scende dall’1,8% (2009) all’1,3% (2013) del PIL italiano. Tutti i dati mostrano come le politiche teoricamente aggiuntive sono in realtà sostitutive di mancata spesa ordinaria: la spesa complessiva in conto capitale procapite è al Sud inferiore alla media nazionale. Il target istituito a fine anni 90 per provare a garantire l’addizionalità (quota del Mezzogiorno sul totale della spesa in conto capitale) è stato abolito dal Governo Berlusconi e mai più ripristinato.
In secondo luogo per motivi politici. Fatta salva la breve azione dei ministri Barca e Trigilia (2011-2013) l’interesse degli ultimi esecutivi per il tema è praticamente inesistente. Nell’attuale governo non è vi è più nemmeno un ministro/sottosegretario che abbia la delega alle politiche di coesione. Giocano i tempi lunghi necessari per queste politiche (contrapposti all’ottica brevissima della politica nazionale); una forte opposizione ideologica, trasversale agli schieramenti, alle politiche pubbliche; una rilevante competizione territoriale per le risorse, in un periodo di grandi vincoli al bilancio pubblico. Ci si è sostanzialmente ridotti all’attuazione, dovuta, delle politiche di coesione comunitarie: che per il ciclo 2014-20 si sono però ridotte, anche a seguito dell’inopportuna decisione del Governo in carica di ridurre il cofinanziamento nazionale in alcune regioni del Sud. La componente nazionale di queste politiche (ex FAS, ora FSC), formalmente presente, è però da tempo utilizzata per altri fini: come nel caso del Governo Berlusconi che nel 2008-10 ha dirottato altrove risorse previste per investimenti pubblici al Sud per oltre 25 miliardi (3), o del Governo Renzi che, con la Legge di Stabilità per il 2015, ha adoperato 3,5 miliardi, che avevano la stessa destinazione, per finanziare gli sgravi contributivi. Il Fondo Sviluppo e Coesione per il 2014-20 (destinato per l’80% ad investimenti al Sud) giace ancora quasi completamente non programmato.
Il poco che si fa ha rilevanti problemi di qualità e di attuazione (4). Un problema di fondo è lo scarso o nullo raccordo fra le politiche aggiuntive di sviluppo regionale e politiche ordinarie, sia di spesa in conto capitale (principalmente infrastrutture e incentivi alle imprese), sia di spesa corrente (istruzione, sanità, servizi sociale). Le prime dovrebbero potenziare e rendere più incisive le seconde; modificare condizioni di contesto affinchè le politiche pubbliche ordinarie siano più efficaci, con minori costi e maggiore disponibilità di servizi per i cittadini e le imprese. Assai spesso le politiche aggiuntive non sono allineate con quelle ordinarie e non ottengono questi risultati. Assai modesto è poi il raccordo tra gli interventi a regia nazionale e quelli delle Regioni.
A fronte di un dimensione relativamente modesta, ed in forte contrazione, le politiche aggiuntive coprono quasi tutti gli ambiti dell’intervento pubblico. Ciò è teoricamente corretto (solo agendo contemporaneamente su più leve si possono attivare politiche di sviluppo: non esiste la “pallottola magica”), e rispondente agli indirizzi comunitari; ad esempio per il 2014-20 la Commissione Europea ha stabilito ben 11 ambiti, estremamente vasti, di intervento. Ma questo ha due rilevanti conseguenze negative: si disperdono le risorse su tantissimi obiettivi, ottenendo necessariamente miglioramenti modesti; è richiesto un impegno attuativo imponente, che rallenta e complica l’azione pubblica. A ciò si aggiungono significative distorsioni (5). All’interno di questi grandi ambiti le risorse sono frammentate su un numero molto alto di azioni e di progetti. Ciò avviene per l’esistenza di una significativa “domanda politica”, da parte dei territori e dei portatori di interessi: dato che queste risorse sono spesso le uniche disponibili, si cerca di farvi ricorso per ogni esigenza. Ma anche per una significativa “offerta politica”: i decisori, specie in sede regionale, preferiscono frammentare gli interventi per massimizzare i propri ritorni di consenso da parte dei beneficiari. Anche a seguito della disattenzione della politica nazionale, e della scomparsa dei legami di partito, sempre più spesso, ogni decisore tende a massimizzare il proprio consenso personale: quindi molti progetti e con un’ottica temporale piuttosto ristretta.
Il presidio di competenza nazionale che avrebbe dovuto garantire sia un maggior raccordo fra politiche aggiuntive e ordinarie, sia l’individuazione di progetti con una scala e una ottica temporale più ampia, si è progressivamente indebolito. Il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, istituito nel 1998, ha continuato a svolgere un ruolo, prezioso, di raccordo della programmazione e sorveglianza dell’attuazione; ma la sua capacità di influenza, su Regioni e Ministeri, è progressivamente diminuita, a anche a seguito alle modifiche delle sua collocazione nell’ambito delle amministrazioni centrali, avvenute a partire dal 2006. La nuova Agenzia per la Coesione, pur svolgendo anch’essa un utile ruolo, stenta ad entrare a regime.
Le difficoltà attuative sono diffuse. Il profilo temporale della spesa dei Fondi Strutturali (sottoposto come noto a stringenti vincoli, a differenza delle politiche nazionali) è sensibilmente peggiorato nel ciclo 2007-13 rispetto al 2000-06; alla scadenza dei termini per la rendicontazione delle spese sostenute (fine 2015) permane il rischio di “disimpegno” di una quota non piccola dei fondi. Il nuovo ciclo 2014-20 è, dopo un biennio, ancora alle primissime battute. I gravi ritardi sono frutto di più fattori: del vistoso disinteresse dell’esecutivo nazionale per queste politiche, specie nel 2008-11; dei vincoli alla spesa di Regioni ed enti locali causati dalle diverse versioni del Patto di Stabilità interno; della frammentazione di azioni e progetti di cui si è detto, con il conseguente sovraccarico amministrativo per burocrazie deboli, come quelle delle regioni del Sud (ma anche dei Ministeri). Rilevano poi i tempi lunghissimi per la realizzazione delle infrastrutture in Italia (6), in tutto il ciclo delle opere, dalle progettazioni ai collaudi; metà dei fondi strutturali 2007-13 erano destinati nel Mezzogiorno alla realizzazione di opere pubbliche; esse hanno avuto i maggiori ritardi. Ritardi che caratterizzano non solo Comuni e piccole amministrazioni appaltanti, ma anche i maggiori attuatori, come RFI e ANAS: dall’Allegato “Aree Sottoutilizzate” del DEF 2015 si apprende ad esempio che RFI ed ANAS avevano raggiunto nel 2014 solo il 27% della spesa per alcuni grandi progetti di trasporto al Sud che si erano formalmente impegnati a realizzare in quell’anno, con un “Contratto Istituzionale di Sviluppo”. A riguardo sarà assai interessante vedere se l’Italia riuscirà davvero a spendere, nel corso del solo 2016, i circa 11 miliardi di investimenti pubblici (di cui 7 al Sud) a fronte dei quali è stata richiesta la “clausola di flessibilità” per gli investimenti alla Commissione Europea (7); circostanza sulla quale sono leciti dubbi. Analoghi dubbi sono leciti nei confronti dell’assai pubblicizzato “Masterplan”, che rischia di essere una mera riedizione di programmi e interventi già esistenti.
Dispiace che proprio mentre le aree deboli del paese stanno sperimentando la peggiore congiuntura economica della loro storia unitaria, le politiche per il loro sviluppo siano caratterizzate da così tanti problemi. Non sembra lungimirante, nell’interesse dell’intero paese, e della sua collocazione in Europa.
Gianfranco Viesti
Note
(1) Viesti G., Le conseguenze territoriali dell’austerità diseguale, Menabò di Etica ed Economia, 14.10.2015, http://www.eticaeconomia.it/le-conseguenze-territoriali-dellausterita-disuguale/
(2) De Felice G., Un Sud che produce, Intesa-San Paolo, Roma, 12.6.2015
(3) Prota F., G. Viesti, Senza Cassa. Le politiche di sviluppo del Mezzogiorno dopo l’Intervento Straordinario, Il Mulino, 2012
(4) Prota F., G. Viesti, 2012 (cit.); G. Viesti, P. Luongo, I fondi strutturali europei, otto lezioni dall’esperienza italiana, Strumenti Res, febbraio 2014 http://www.strumentires.com/attachments/article/506/Viesti%20e%20Luongo_str.pdf ; G. Viesti, Perché la spesa dei fondi strutturali è così lenta?, Strumenti Res, febbraio 2015, http://www.strumentires.com/attachments/article/552/Viesti_Sres_1_15.pdf.
(5) Trigilia C., G. Viesti, La crisi nel Mezzogiorno e gli effetti perversi delle politiche, Il Mulino, 1/2016
(6) Dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica – Nucleo Tecnico di valutazione e verifica degli investimenti pubblici I tempi di attuazione e di spesa delle opere pubbliche. Rapporto 2014. http://presidenza.governo.it/governoinforma/documenti/DPS-Uver_Rapporto_2014.pdf
(7) Ministero dell’Economia e delle Finanze, Documento Programmatico di Bilancio 2016, in particolare le pp. 9-15. http://www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2016-IT.pdf
at 11:40
Sconfortante. L’Italia è un Paese profondamente autorazzista rispetto al Meridione e le aree più ricche si accaparrano tutto. Ha senso questa Unità d’Italia? Hanno senso questi premier così provinciali?