Questo contributo è parte di un numero speciale di EyesReg dedicato al tema dell’agricoltura urbana, curato da Corinna Morandi.
di: Rositsa T. Ilieva
EyesReg, Vol.6, N.5, Settembre 2016
È ormai largamente condiviso che senza un pensiero sistemico, capace di far dialogare discipline, istituzioni e politiche settoriali, il progetto della città sostenibile sia inattuabile. Con la sua innata complessità, il cibo, inteso come sistema urbano composto da numerosi sottosistemi territoriali quali, ad esempio, l’agricoltura, i trasporti, la logistica, la distribuzione, il consumo e la gestione dei rifiuti, offre delle singolari opportunità per superare le attuali scissioni tra discipline e professioni che si occupano della città e del territorio. Immaginare il cibo come sistema urbano ci può non solo permettere di scoprire possibili sinergie tra città e campagna finora trascurate, ma anche di comprendere e, in seguito, di gestire i problemi ambientali e di salute urbana come due facce della stessa medaglia, invece che affidarli solamente a ministeri e assessorati tra loro distanti come, ad esempio, quelli della sanità e dell’agricoltura. In più, a differenza di altri sistemi e infrastrutture urbane, il modo essenziale in cui il cibo lega abitanti, spazio pubblico in città e territorio agricolo, su scala regionale e mondiale, lo rende uno strumento strategico per coltivare una cittadinanza consapevole ed attiva, senza la quale le aspirazioni alla città sostenibile resteranno inevitabilmente solo sulla carta. Nell’ultimo decennio, ipotesi come queste sono state avanzate da numerosi studiosi e politici nel mondo industrializzato, testandone la validità nel concreto, attraverso piani, progetti e politiche sul cibo come sistema e leva per un nuovo modo di pensare la, e per la, città.
Da New York a Vancouver, da San Francisco a Londra e Milano, sta emergendo una nuova nicchia di competenze nella pianificazione del sistema agro-alimentare urbano. Questa mira, tra le altre cose, al recupero della scala urbana di produzione e commercio diretto di frutta, ortaggi, e piccoli animali da fattoria, per promuovere uno sviluppo urbano più equilibrato e in sintonia con le nuove esigenze e stili di vita urbani. Benché dinamico e ancora difficile da codificare in modo univoco, uno sguardo globale all’interno di questa nicchia ci permette di individuare alcuni filoni di pratiche progettuali focalizzate sull’agricoltura urbana già abbastanza mature tra le quali: 1) La trasformazione e/o valorizzazione di spazi marginali urbani e periurbani; 2) La messa a punto di nuovi spazi di connessione tra paesaggi produttivi, esistenti e potenziali, su scala urbana e territoriale; 3) Il disegno di nuove matrici di sviluppo e crescita urbana a partire dal cibo come sistema socio-ecologico portante e principio guida di organizzazione spaziale. La crescente conversione di spazi e fabbricati dismessi, abbandonati, o sottoutilizzati in nuovi luoghi della produzione è forse la manifestazione più evidente delle nuove pratiche sociali e amministrative che sfidano i legami convenzionali tra cibo e città.
I diversi progetti di agricoltura urbana spesso possono differire in modo sostanziale uno dall’altro per le loro ragioni di fondo nonché per i modi di utilizzare lo spazio aperto. Da una parte, la produzione di cibo locale viene usata come mezzo per combattere i problemi più insidiosi di ineguaglianza sociale e degrado ambientale, quindi ben lontana dalle aspirazioni di autosufficienza alimentare che alcuni osservatori erroneamente le attribuiscono; basti ricordare progetti come La Finca del Sur di New York o lo Stop Community Food Center di Toronto, che propongono un futuro alternativo per la riqualificazione dei vuoti urbani. Mentre dall’altra, vi sono progetti di agricoltura urbana incentrati sulla città come nuovo spazio per la produzione ed innovazione agricola che cercano nuove sinergie tra cibo e città non tanto in chiave sociale, quanto in chiave economica e produttiva. Tra questi ci sono i grandi orti pensili commerciali, che hanno iniziato a spuntare sui tetti di vecchi fabbricati industriali a Brooklyn (ad es. Brooklyn Grange, Gotham Greens, Eagle Street Rooftop Farm), Chicago (ad es. Gotham Greens, Urban Canopy Rooftop Farm, McCormick Place Rooftop Garden), e Toronto (ad es. Ryerson University Rooftop Farm, Lufa Farms), ma anche su edifici di nuova costruzione quali supermercati (ad es. Whole Foods) e case popolari (ad es. Arbor House nel Bronx, 60 Richmond Street East a Toronto). Seppur ancora a livello di scenari e prototipi sperimentali, in questo insieme di progetti, che fanno leva sulla densità della città per costruire nuovi spazi per la produzione orticola intensiva, vi sono anche le proposte di fattorie a torre, o vertical farms (ad es. la Vertical Farm di Dickson Despommier o di Blake Kurasek, oppure il concept della Dragonfly Vertical Farm di Vincent Callebaut Architecture) che integrano la tipologia dell’edificio alto con le tecnologie di coltivazione agricola in assenza di suolo come l’idroponico e l’aeroponico, già da tempo impiegati nelle serre convenzionali.
Oltre che per ragioni sociali e produttive, in alcuni casi, il ritorno della coltivazione e della vendita diretta di prodotti agricoli in città è fortemente voluto da cittadini e amministrazioni locali anche per l’abilità di queste attività di ridare un’identità ai luoghi ed innescare processi di rinnovamento culturale. La città di Detroit, oggi considerata la “mecca” dell’agricoltura urbana, ne è un caso emblematico, ma vi sono anche tante altre città che cercano di combattere le conseguenze della de-industrializzazione attraverso l’agricoltura urbana – come ad esempio la città di Philadelphia (si veda ad es. il piano-progetto Farmadelphia di Front Studio Architects). L’agricoltura urbana e le filiere agro-alimentari corte hanno un notevole potenziale di rivitalizzazione culturale anche in Europa e, in particolar modo, nel bacino mediterraneo, dove attorno alle grandi metropoli vi sono numerosi manufatti agricoli storici, ormai in disuso in quanto resi obsoleti dal sistema agro-alimentare attuale, ma parte di un ricchissimo patrimonio storico e culturale, e tracce di sostenibilità socio-ecologiche preesistenti. Basti pensare a progetti innovativi come la riqualificazione di Cascina Cuccagna nel cuore di Milano oppure di Cascina Santa Brera appena fuori città, o l’iniziativa virtuosa del Distretto Agricolo Milanese (DAM) a sud del centro urbano di Milano.
Pianificare la città sostenibile a partire dal cibo come sistema urbano significa, però, non solo promuovere interventi “chirurgici” selettivi alla Geddes – per invertire i processi di degrado urbano attraverso nuove letture del genius loci, oppure offrire un antidoto alla shrinking city della decrescita post-industriale – ma anche usare il cibo come prisma per ripensare in modo comprensivo la forma urbana e gli attuali modelli di crescita e sviluppo territoriale. Per attuare una transizione dal quadro frammentato di orti urbani isolati all’agricoltura urbana come infrastruttura territoriale unitaria e priva di soluzioni di continuità occorrono nuove connessioni spaziali e strutture di supporto diffuse a scala urbana. Per gli architetti britannici Katrin Bohn e Andre Viljoen, questa sfida va affrontata attraverso la realizzazione di paesaggi produttivi urbani continui (CPULs), che connettano progetti di agricoltura urbana esistenti, esaltandone i benefici e stimolando lo sviluppo di nuove iniziative. L’esito finale atteso è una nuova rete di dorsali verdi di collegamento non solo tra brani di città distanti, ma anche tra città e campagna. Simile a questa è anche la proposta del Design Trust for Public Space newyorkese per un food hub lineare nel Bronx a partire da una greenway esistente, lungo la quale ci sono già numerosi orti urbani, mercati di contadini, edifici e mense scolastiche, parchi e servizi sociali.
Urbanisti e architetti con una visione del cibo come sistema territoriale e leva fondamentale per lo sviluppo sostenibile hanno anche iniziato a mettere in discussione i modelli dominanti di espansione urbana, sviluppando matrici di urbanizzazione alternative nelle quali l’agricoltura urbana e periurbana possano avere un ruolo strutturale e duraturo. Tra le soluzioni che mirano a guidare interventi di urbanizzazione ex novo vale la pena ricordare il piano per il distretto agro-residenziale di Almere Oosterwold in Olanda, sviluppato dallo studio di architettura MVRDV e in corso di realizzazione, il masterplan per uno sviluppo agro-urbano del Chong Ming Island, ideato dagli architetti dello studio SOM di Chicago ma ancora non implementato, e i modelli di suburbanizzazione alternativa di Agriburbia, messi a punto dal TSR Group negli Stati Uniti e, in modo separato e differente, da cooperative locali nell’area metropolitana di Vancouver (ad esempio il Yarrow Ecovillage). Vi sono poi anche proposte progettuali su scala sovra-locale che insistono sull’importanza di sviluppare nuove rappresentazioni territoriali del cibo come sistema territoriale per promuovere politiche e strategie per i territori agro-urbani esistenti. Tra queste, di particolar rilievo sono: il concetto di forma urbis et agri, incentrato sulla regione urbana milanese e investigato dal gruppo di Giorgio Ferraresi al Politecnico di Milano; le nozioni di bioregione e di urban foodshed, usate come strumenti di indagine ma anche di progettazione di nuove reti ed infrastrutture agro-alimentari regionali a Milano (si veda il progetto Bioregione coordinato da Stefano Bocchi dell’Università Statale di Milano) e in numerose altre città nel mondo, come San Francisco, New York e Tokyo; e la proposta di Agropolitana avanzata dalla professoressa Viviana Ferrario, docente e ricercatrice presso lo IUAV, che mette in evidenza la singolarità dei territori agro-urbani nel Veneto e le tensioni tra diversi obiettivi di sviluppo sostenibile, quali la produzione di cibo sano, energia pulita, biodiversità, e spazi per lo svago e la ricreazione.
Non vi è dubbio che nel corso dell’ultimo decennio l’interesse per il cibo, come volano per lo sviluppo urbano e territoriale sostenibile, e per la città, come veicolo per un sistema agro-alimentare più rispettoso dell’ambiente e della salute umana, sia andato crescendo in modo esponenziale, sia nel mondo anglosassone che nei paesi comunemente noti per la qualità del loro paesaggio agrario e la loro eccellente cultura alimentare, come l’Italia, la Francia, e la Spagna. Ad oggi, vi sono più di ottanta piani e strategie per il sistema del cibo locale adottate da città e regioni nel nord del mondo, accompagnati da una lunga serie di emendamenti legislativi per includere l’agricoltura urbana come legittimo uso del suolo nella città (soprattutto in Nord America) e da altrettanti provvedimenti di incentivi per orti pensili sui tetti e programmi di riqualificazione degli spazi vuoti e marginali con l’agricoltura urbana.
Tuttavia, alcune domande importanti rimangono ancora aperte e necessitano di tempestivi approfondimenti ed indagini sul campo. Qual è il giusto equilibrio tra iniziative promosse dal basso e piani e progetti sviluppati dalla nascente generazione di “esperti” pianificatori e designer del sistema agro-alimentare urbano e regionale? Possono quest’ultime involontariamente soffocare le prime e, se sì, quali misure possono impedire che ciò accada? Come evitare un progressivo allontanamento del sapere tecnico dal sapere pratico, sviluppatosi attraverso la cittadinanza attiva e parte integrante del successo di ogni paesaggio produttivo urbano? Come trovare delle proficue sinergie tra mondi disciplinari distanti che tengono isolate le politiche sulla città e la campagna? Quali sono gli elementi teorici chiave attraverso cui integrare la conoscenza del cibo come sistema urbano negli esistenti iter formativi che prepareranno gli urbanisti, architetti, pianificatori del paesaggio, ed economisti e geografi urbani di domani? Se vogliamo affrontare seriamente la sfida della città sostenibile sarà fondamentale iniziare ad interrogarci su queste domande sin da oggi, perché non riconoscere il ruolo strategico del cibo come sistema urbano e territoriale sarebbe una grande occasione mancata per le società urbane del ventunesimo secolo.
Rositsa T. Ilieva, Parsons School of Design, New York (USA)
Riferimenti bibliografici
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