di: Aurelio Bruzzo
EyesReg, Vol.2, N.3 – Maggio 2012.
Delle numerose questioni emerse dal dibattito scientifico che si è recentemente sviluppato nel nostro paese in merito ai cambiamenti indotti nel sistema manifatturiero italiano dalla grave crisi internazionale tuttora in corso (Monducci et al., 2010), le seguenti due paiono particolarmente interessanti tanto da essere state oggetto di una delle sessioni organizzate nell’ambito della XXXII Conferenza italiana di Scienze regionali, svoltasi a Torino nel settembre 2011.
La prima concerne la possibilità di distinguere le caratteristiche strutturali del sistema industriale da quelle congiunturali, mentre la seconda questione porta a chiedersi in quale misura l’emergere fra le imprese di alcune singolarità strategiche ha reso difficilmente distinguibile l’eventuale specificità territoriale dei processi in corso.
La redditività delle imprese manifatturiere italiane
Poiché i dati messi a disposizione dall’ISTAT l’anno scorso nell’ambito delle Statistiche strutturali delle imprese si riferivano agli anni compresi tra il 2001 e il 2008, essi permetterebbero d’individuare solo le tendenze che erano in atto prima dello scoppio della crisi, ed eventualmente il suo impatto iniziale, riuscendo tutt’al più a rispondere in parte al primo quesito.
Pertanto, con la ricerca svolta Marina Schenkel si è proposta un obiettivo più circoscritto, cioè l’analisi dei fattori che stanno alla base della redditività delle imprese, alla luce della constatazione secondo cui i legami fra redditività e crescita – a differenza di quelli fra redditività e produttività – non sono ancora del tutto chiari a livello microeconomico (Schenkel, 2011). Pertanto, si evidenziano le differenze territoriali emergenti dalle verifiche empiriche finora considerate a livello d’intero sistema produttivo nazionale, e cioè quelle sull’importanza dei fattori dimensionali e di specializzazione, nonché sul ruolo propulsivo svolto dalle imprese esportatrici.
E’ stata quindi sottoposta a verifica l’ipotesi secondo cui le dinamiche di tenuta, incremento o riduzione della performance a livello di singole imprese possano essere spiegate attraverso la condotta di queste ultime in termini di specializzazione produttiva, livello di investimenti e di esportazione, tenendo conto della loro dimensione, del settore di appartenenza e della loro localizzazione geografica. I risultati ottenuti dalle elaborazioni effettuate portano a sostenere che la produttività e il grado d’internazionalizzazione evidenziano una relazione positiva con la redditività delle imprese, mentre non sembra emergere un’evidente influenza esercitata dalle scelte di disintegrazione verticale, così come non pare influire neppure la loro localizzazione geografica. Un ruolo positivo, invece, è svolto sia dalla dimensione sia dall’appartenenza dell’impresa a un gruppo multinazionale, diversamente dall’appartenenza a un distretto, che non risulta quasi mai significativa.
Nel complesso, dunque, questa prima indagine sembrerebbe confermare l’idea secondo cui il sistema produttivo italiano sia caratterizzato da una notevole eterogeneità, tanto che i fattori che spiegano le performance relative anche in termini di redditività, vanno individuati nelle caratteristiche individuali piuttosto che nei fattori comuni d’industria, localizzazione geografica e dimensione d’impresa.
I principali mutamenti nei distretti industriali italiani
Per affrontare in qualche modo la seconda questione, si possono prendere in esame le tendenze più recentemente messe in luce dai distretti produttivi italiani, le quali sembrano portare ad una tesi interpretativa, che si sta diffondendo tra gli studiosi, secondo cui il modello italiano di organizzazione locale della produzione è ancora vitale, ma necessita di accelerare il processo di evoluzione verso più moderni assetti organizzativi, tecnologici e istituzionali (Busato e Corò, 2011).
In effetti, i risultati conseguenti all’analisi econometrica condotta dai due ricercatori documentano la capacità di tenuta, ma anche le diverse linee di trasformazione attualmente in corso all’interno dei distretti italiani. Più in particolare, si evidenziano i processi di formazione delle imprese leader, di crescita dei servizi impiegati e di evoluzione delle economie di specializzazione in una nuova categoria (denominata “economie di varietà”), giungendo a sottolineare l’opportunità d’integrare il tradizionale approccio dell’analisi marshalliana con i contributi di tipo neo-schumpeteriano sull’economia dell’innovazione e dell’imprenditorialità.
In base a tali risultati, dunque, i distretti industriali, nonostante un lungo periodo di difficoltà da loro attraversato e la grave recessione in corso, continuano a costituire un importante elemento dell’economia italiana. Ad esempio, i più recenti dati sulle esportazioni allora disponibili sembrano confermare una delle caratteristiche salienti della formula distrettuale, rappresentata dalla capacità di adattamento alle trasformazioni delle condizioni del mercato.
Inoltre, questa forma di organizzazione della produzione manifatturiera, a base territoriale, da qualche tempo sta evidenziando cambiamenti molto più profondi rispetto al passato, tali da mettere in discussione le tradizionali rappresentazioni ispirate alle teorie “marshalliane”. A questo fine viene fatto riferimento a tre aspetti, di particolare rilievo sia dal punto di vista teorico che di politica economica.
Il primo è la partecipazione da parte delle imprese distrettuali alla creazione di catene produttive sempre più globali, con lo spostamento delle cosiddette operations manifatturiere in sistemi economici a più basso costo del lavoro oppure in prossimità dei mercati finali. Queste catene transnazionali di produzione stanno modificando non solo il “paesaggio” industriale dei distretti, ma anche i fattori – come il mercato del lavoro, le reti di fornitura e le stesse conoscenze distintive – da cui fino a poco tempo fa derivavano i vantaggi competitivi delle specializzazioni territoriali.
Un secondo aspetto del cambiamento in corso nei distretti è la differenziazione interna: se da un lato emerge con sempre maggiore evidenza il ruolo chiave svolto dalle imprese leader, dall’altro si stanno manifestando anche processi molto intensi di selezione, trasformazione e riposizionamento delle imprese minori. La differenziazione dei distretti si esprime, in realtà, lungo diverse direzioni – dimensionale, settoriale, funzionale, di performance – ponendo in tal modo l’esigenza di trovare nuovi criteri d’individuazione del sistema di relazioni fra imprese. In altri termini, l’ipotesi che viene sostenuta è che il collante territoriale del distretto difficilmente può essere ancora ricondotto al mercato comunitario; di conseguenza, diventa anche necessario individuare nuove istituzioni che siano in grado di regolare le complementarità strategiche, nonché di alimentare l’attrazione localizzativa esercitata dalle imprese.
Il terzo aspetto preso in esame è il ruolo sempre più importante svolto dai servizi terziari nell’ambito degli attuali distretti. La crescita dei servizi, e in particolare di quelli a elevato contenuto di conoscenza, costituisce un elemento facilmente immaginabile delle trasformazioni in corso. Tuttavia, non è assolutamente scontato che lo sviluppo del settore terziario debba privilegiare i tradizionali territori distrettuali, i quali potrebbero venirsi a trovare svantaggiati rispetto alle aree urbane nell’attirare e far crescere i servizi più qualificati. Pertanto, l’ipotesi che viene formulata è che l’evoluzione dei distretti industriali si accompagni sempre più al loro inserimento in un ambiente di tipo “metropolitano”, dove le relazioni fra i territori tendono ad aumentare d’intensità rispetto a quelle interne ai singoli sistemi locali.
Questi aspetti del cambiamento distrettuale sono stati verificati mediante dati panel (Osservatorio Tedis) e più estese fonti territoriali (Istat), giungendo a risultati che tendono a confermare l’ipotesi di un “effetto città” sulle performance delle attività industriali a livello locale.
Dai distretti industriali alle imprese innovative
Come noto, i distretti industriali hanno agito come fattori d’innovazione all’interno dei rispettivi sistemi d’appartenenza, giacché la presenza di un insieme di conoscenze specializzate, l’accentuata divisione del lavoro, la condivisione di linguaggi, regole e valori, nonché gli elevati livelli di concorrenza tra le imprese rappresentano i principali elementi che hanno favorito l’innovazione, stimolando i processi di apprendimento e dando luogo ad un’elevata densità di canali di trasferimento della conoscenza all’interno degli stessi distretti. Secondo Toschi (2011), però, il processo di globalizzazione che ha esteso gli ambiti in cui agiscono i processi di produzione, circolazione e utilizzo delle conoscenze rilevanti per l’innovazione, ha finito per mettere in crisi i distretti, intesi come sistemi chiusi, tanto da evidenziare il rilievo della capacità di auto-generare le risorse umane e cognitive necessarie alla propria riproduzione nel tempo.
Un altro elemento che ha ridotto l’efficacia delle dinamiche innovative intra-distrettuali è costituito dal fatto che ora i processi innovativi si caratterizzano per essere sempre più codificati e per richiedere in maggior misura che in passato conoscenze scientifiche e tecnologiche formalizzate. Si tratta, dunque, di un modello sostanzialmente diverso rispetto a quello tipico dei distretti industriali, in cui la generazione di conoscenze si basava in prevalenza su processi del tipo “learning by doing” e “learning by using”, che hanno contribuito a diffondere le conoscenze a livello locale attraverso vari tipi di relazioni intra-distrettuali. Oggi, invece, il successo delle attività d’innovazione sembra dipendere più dalla capacità di attivare percorsi di assorbimento di conoscenza codificata a scala internazionale, che si basa su elementi chiave come la capacità di estendere la rete delle relazioni oltre i confini del distretto, al fine di accedere a fonti di conoscenza prevalentemente esterne.
Ai fini del successo dell’innovazione, poi, tali nuove abilità appaiono strettamente legate, giacché solamente le imprese che dimostrano un’elevata capacità di “assorbimento” riescono a massimizzare i benefici derivanti dalle collaborazioni. Inoltre, le imprese devono saper interagire con le fonti di conoscenza esterne, usando linguaggi specialistici che non sono solo quelli precedentemente condivisi all’interno del distretto. In tal modo viene meno la base comunitaria che in passato aveva favorito l’interazione cognitiva tra imprese distrettuali, così come le barriere di accesso ai linguaggi formali rendono più selettivi anche i processi di spill-over.
Mediante il campione di imprese utilizzato per un’indagine svolta dalla Fondazione Nord Est nella primavera del 2010, si sono infine individuati gli elementi che aumentano la probabilità di successo per un’innovazione di prodotto introdotta da un’impresa manifatturiera. Limitando l’osservazione alle imprese appartenenti al settore manifatturiero, operanti o meno in aree distrettuali, e considerando solamente i dati riguardanti le imprese che negli ultimi tre anni hanno introdotto un’innovazione di prodotto, i risultati ottenuti mediante verifica quantitativa non solo confermano la capacità di assorbimento delle imprese e la loro capacità relazionale, ma giungono anche a sottolineare il possibile ruolo che le imprese leader operanti all’interno dei distretti potrebbero assumere nell’ambito dei percorsi di riorganizzazione delle reti distrettuali di tipo cognitivo.
Conclusioni
In sede conclusiva pare opportuno ritornare brevemente sulle riflessioni introduttive per sottolineare gli elementi che si possono trarre dai tre recenti contributi qui considerati in quanto utili per fornire una qualche risposta alle questioni inizialmente poste.
Circa le caratteristiche strutturali del sistema industriale del nostro paese si ottiene innanzi tutto la conferma di un sistema notevolmente eterogeneo, che da un lato si articola in un numero limitato di imprese che, presentandosi talvolta anche come veri e propri “campioni nazionali”, non raramente ottengono un considerevole successo sui rispettivi mercato internazionali; dall’altro, lo stesso sistema industriale italiano si articola in un insieme di concentrazioni produttive, formate in prevalenza da PMI, che in misura non trascurabile si dimostrano capaci di innovare le loro produzioni o i loro processi produttivi, grazie alla loro abilità di apprendere le nuove conoscenze tecnologiche e organizzative, anche mediante un maggior ricorso ai servizi terziari che le sospinge inevitabilmente in prossimità delle aree urbane e metropolitane.
Resta allora da comprendere se tali tendenze siano effettivamente spontanee, a parte i condizionamenti esercitati dalla competizione globale, o se invece quelle non siano in qualche modo e in qualche misura favorite anche dalle misure di politica industriale – come, ad es., il contratto di rete – nel contempo adottate dai vari livelli di governo competenti in materia.
Aurelio Bruzzo, Università di Ferrara
Bibliografia
Busato A., Corò G. (2011), Apertura internazionale, differenziazione produttiva e crescita dei servizi: un’analisi sul cambiamento dei distretti industriali italiani. Paper presentato alla XXXII Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Torino, settembre.
Monducci R., Anitori P., Oropallo F., Pascucci C. (2010), Crisi e ripresa del sistema industriale italiano: tendenze aggregate ed eterogeneità delle imprese. Economia e politica industriale, 37, 3: 93-116.
Schenkel M. (2011), Redditività nel sistema manifatturiero italiano: analisi di un panel di imprese (2001-2008). Paper presentato alla XXXII Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Torino, settembre.
Toschi G. (2011), Innovazione, capacità di assorbimento e capacità relazionale all’interno dei distretti industriali: una verifica empirica. Paper presentato alla XXXII Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Torino, settembre.