di: Gioacchino Garofoli
EyesReg, Vol.7, N.1, Gennaio 2017
Il panel con i Rettori delle Università del Centro-Nord (1) sui rapporti tra ricerca e industria organizzato nell’ambito dell’ultima Conferenza AISRe di Ancona (Settembre 2016) rappresenta un’opportunità per riaprire un questione rilevante sia per l’Università che per lo sviluppo del territorio.
Questo tema è di grande rilevanza sia per le politiche regionali dell’innovazione che per le strategie di sviluppo economico del paese, ma è troppo spesso dimenticato da molte Università, in particolare dalla gran parte dei docenti e ricercatori che non sono assolutamente consapevoli delle responsabilità della terza missione dell’Università. L’impatto economico-sociale sui territori dell’Università e della ricerca è documentato da un’ampia letteratura su casi di successo, soprattutto su casi statunitensi (Saxenian, 1994) ed europei, con particolare riferimento ai poli tecnologici di Cambridge, Grenoble e Toulouse (De Bernardy, 1994; Keeble, 2002; Longhi, 2002), e ha sollecitato l’introduzione di modelli e ipotesi teoriche sui meccanismi di interazione tra i vari partner coinvolti nel processo innovativo. L’attenzione a questi temi è stata introdotta in Europa soprattutto negli anni ’80, mentre in Italia si è avuto il sorgere di un forte interesse nei primi anni ’90 (cfr. la sezione monografica del n. 88 di Economia e Politica Industriale) (AA.VV., 1995), anche con l’avvio di progetti di costituzione di poli tecnologici. L’impatto delle Università sullo sviluppo economico e sociale è stato, inoltre, recentemente oggetto di una estesa ricerca dell’OECD (Reviews of Higher Education in Regional and City Development) (cfr. OECD, 2011).
Tema, dunque, spesso discusso in seminari e convegni ma ancora poco praticato come modus di interazione culturale (e di dinamica sociale) nelle città universitarie. Di conseguenza, si assiste spesso a dichiarazioni di piena disponibilità da entrambi i principali partner del gioco interattivo (Università e imprese), però non si riesce ad individuare un deciso e continuativo commitment (con il lancio di azioni e progetti) sulla questione che resta sempre nell’agenda dei desiderata ma lontana dalle scelte decisionali effettive (con progetti che implicano l’utilizzo di risorse e personale appositamente dedicato).
La promozione delle relazioni ricerca – industria in Italia
Il panel dei Rettori ad Ancona ha consentito un confronto pubblico e l’identificazione di iniziative avviate nelle Università rappresentate, ed ha messo in rilievo la presenza di alcune condizioni e variabili che si presentano sistematicamente quando si affrontano questi temi attraverso la raccolta di informazioni per l’avvio di analisi comparate su diversi casi-studio. I Rettori presenti già collaborano tra loro da tempo per rafforzare le capacità delle Università di gestire la complessa dinamica delle relazioni tra i vari attori nel gioco dell’innovazione territoriale. La presenza nella Tavola Rotonda di Patrizio Bianchi, che da anni ha favorito la cooperazione tra pubblico e privato, oltre che tra Amministrazione Pubblica e Università nel campo della ricerca applicata e dell’inserimento di nuove professionalità e competenze tecniche nel sistema produttivo, grazie alla doppia esperienza nei due mondi, mostra con chiarezza quali sono le sfide da accettare e i percorsi da seguire.
Non è un caso, dunque, che l’esperienza maturata negli ultimi anni presso l’Università di Modena e Reggio Emilia sia alquanto ricca ed interessante. Innanzitutto la gamma degli strumenti utilizzati (Industrial Liaison Office, incubatori, Centro interdipartimentale “Grandi Strumenti”, contratti di ricerca, spin-off), l’attenzione al raccordo tra formazione, training in azienda e placement, il ruolo delle ricerche e delle competenze della Facoltà di Ingegneria (2), l’avvio di progetti di ricerca con l’esterno che coinvolgano sia medici che ingegneri (biomeccanica applicata alla sanità, telemedicina e l’estensione delle competenze della robotica e del laser nella sanità), rappresentano le condizioni necessarie e indicano i percorsi potenzialmente avviabili in tutte le città universitarie.
Gli interventi a sostegno dell’interazione tra formazione, ricerca e industria si sono moltiplicati, negli ultimi anni, anche nei cinque Atenei sui quali si è concentrata l’attenzione nel confronto di Ancona: i risultati, seppure non eclatanti, dimostrano la crescita delle iniziative imprenditoriali nate dal lavoro universitario, con la creazione di spin-off e di start-up, oltre che con la crescita delle relazioni con l’esterno. Queste iniziative hanno offerto opportunità per contratti di ricerca e per il deposito di brevetti (3), e le Università stanno entrando in un percorso di condivisione (con gli altri stakeholder) delle idee per i progetti regionali per l’innovazione.
La valutazione espressa dai Rettori ad Ancona è sembrata molto ottimistica non solo riguardo ai risultati delle iniziative intraprese, ma soprattutto rispetto alle prospettive evolutive. I Rettori hanno altresì manifestato il loro entusiasmo e il loro impegno su questo tema; tutto ciò è molto positivo. Ciò che forse è mancata è stata un’analisi (e una valutazione) dei comportamenti dei partner potenziali dell’interazione ricerca – industria, in particolare dell’eventuale cambiamento della percezione e della partecipazione delle imprese ai progetti di individuazione dei fabbisogni tecnologici nel territorio, e delle opportunità di ricaduta economica del trasferimento delle competenze tecnico-scientifiche presenti nelle istituzioni di ricerca. È, infatti, noto a tutti il ritardo esistente nelle imprese italiane a cogliere le opportunità di inserire progressivamente le competenze e le conoscenze del sistema della ricerca nel processo di modificazione delle strategie delle imprese, individuandone il valore e ponendo in gioco risorse interne per il loro utilizzo e valorizzazione.
Un’analisi comparata con altre regioni e paesi dell’intensità delle relazioni ricerca – industria, e delle modalità introdotte per rafforzarle e per indurre innovazione, diventa pertanto prioritario. Ciò soltanto favorirà la consapevolezza sulle condizioni di contesto e sulle politiche da introdurre per eventualmente modificarle. A questo proposito, potrebbe essere particolarmente utile una estesa riflessione, insieme all’organizzazione di un confronto e un dibattito nelle varie Università, anche per favorire l’introduzione di comportamenti virtuosi tra i docenti e ricercatori nei riguardi della terza missione.
Sulla base dei risultati di ricerche sistematiche, come quella già ricordata dell’OECD (Reviews of Higher Education in Regional and City Development) che ha analizzato il ruolo delle Università nello sviluppo economico e sociale, studiando in dettaglio una regione per ciascun paese membro (cfr. OECD; 2011), si potrebbe accrescere la consapevolezza sui punti di debolezza delle nostre Università e sulle opportunità strategiche perseguibili, anche con la diffusione di “buone pratiche”. La ricerca OECD purtroppo è passata “sotto silenzio” nel nostro paese, e soprattutto non ha innescato discussione e dibattito neppure nelle Università lombarde, cioè della regione coinvolta nella ricerca e alla quale avevano partecipato attivamente le Università con un delegato del Rettore (IReR, 2010) (4).
La ricerca OECD sulla Lombardia aveva evidenziato alcuni ritardi nelle Università italiane rispetto agli altri paesi (con iniziative frammentate e relativamente arretrate) e, soprattutto, la mancanza di attenzione su alcune caratteristiche strutturali e fondamentali, non solo del funzionamento degli Atenei italiani ma anche della difficoltà ad interagire con il mondo produttivo. Questioni per la verità non nuove nel dibattito e nella ricerca italiana sull’innovazione e sulle politiche dell’innovazione degli anni precedenti, ma generalmente dimenticate, specie da parte dei policy maker. Elenco alcune raccomandazioni dell’OECD con riferimento ad alcuni comportamenti degli attori, e alle specificità dell’economia italiana e lombarda che andrebbero colte. Con riferimento al mondo delle imprese:
- la limitata evidenza di supporto da parte delle imprese nei riguardi delle iniziative e dei progetti di interazione ricerca-università;
- la questione della successione generazionale nelle piccole e medie imprese, che rende ancor più urgente il reclutamento di figure professionali e competenze “alte”;
- l’insufficiente attenzione alla formazione continua nel sistema produttivo.
Con riferimento alle Università, oltre all’insufficiente attenzione ai fabbisogni impliciti di formazione continua nelle imprese, si nota una insufficiente attenzione all’occupabilità dei laureati e alla sensibilizzazione e orientamento degli studenti allo sviluppo di competenze e capacità imprenditoriali. Infine, vi sono alcune debolezze istituzionali e contestuali, come l’insufficiente orientamento all’alternanza scuola –lavoro e al mismatching tra domanda e offerta di lavoro (cfr. Oecd, 2011, pp. 19-45).
Va tuttavia ricordato che esiste un ulteriore ritardo nelle politiche dell’innovazione nel nostro paese, legato al fatto che hanno sistematicamente evitato di considerare e valorizzare la dimensione territoriale del processo innovativo (5). Questione che, oltre ad essere stata già considerata da François Perroux (1955 e 1961) come elemento cruciale sia per l’analisi che per la gestione delle politiche regionali di sviluppo, è stata ampiamente valorizzata dalle politiche dell’innovazione in diversi paesi europei già negli anni Novanta (Asheim et al, 2003; Garofoli e Musyck, 2001). Ancor più, negli ultimi anni, sono state introdotte due rilevanti misure a livello nazionale per il sostegno dell’innovazione che possono avere applicazione esclusivamente a livello territoriale: la Francia ha introdotto nel 2004 la politica dei pôles de competitivité e, successivamente, la Spagna la politica delle agglomerazioni di impresa per incentivare le relazioni tra imprese orientate all’innovazione e centri di ricerca, attraverso il lancio di bandi pubblici in aree di alta densità produttiva perché luoghi che producono saperi e competenza radicate e, quindi economie esterne (Pecqueur, 2007; Trullen , 2007) (6). Tutto ciò è avvenuto nonostante l’approccio territoriale alla sviluppo economico sia nato in Italia.
L’esperienza dei poli tecnologici in Francia, soprattutto a Grenoble, fa emergere il ruolo cruciale ricoperto da figure professionali particolari che fungono da “mediatori” tra centri di ricerca e imprese. Non c’è centro di ricerca che si rispetti, infatti, che non abbia un professionista dedicato alle relazioni con l’esterno per captare eventuali fabbisogni di trasferimento tecnologico e per diffondere le informazioni sulle competenze esistenti nel centri di ricerca; ma, allo stesso tempo, ciò avviene anche nelle grandi imprese, che utilizzano un professionista interno per comunicare e interagire con il mondo della ricerca. La ridondanza di “mediatori culturali” che consentano di far interagire organizzazioni che assumono codici, linguaggi e obiettivi differenti è tutt’altro che diseconomico, anzi rappresenta una sorta di “bene pubblico” che produce economie esterne per il sistema territoriale (Garofoli, 2015). Questi “mediatori” fanno cogliere le opportunità per i vari partner, fanno emergere la complementarietà delle competenze esistenti in varie organizzazioni, la possibilità di mettere in comune alcune risorse specifiche (macchinari, laboratori). Tutto ciò ha favorito la diffusione di pratiche e di esperienze di collaborazione interistituzionale con crescita della cultura e della sensibilità all’interazione ricerca – industria. Soprattutto la continuità delle relazioni e la possibilità di sperimentare i vantaggi dell’interazione, sono alla base della costruzione della fiducia reciproca tra i partner del processo innovativo, che rappresenta una delle condizioni essenziali per garantire la continuità dei rapporti e l’efficienza economica di una struttura organizzativa diffusa tra attori diversi ma concentrati sul territorio, e che garantisce flessibilità e riduzione (e soprattutto, ripartizione) dei costi complessivi da affrontare.
Ovviamente è più difficile, ma non impossibile, organizzare efficaci relazioni tra ricerca e industria nei paesi e nelle regioni in cui la struttura economica è fortemente orientata alle piccola e piccola-media dimensione d’impresa. Ma una parte rilevante della ricerca di economia industriale e sulle modalità dello sviluppo economico del nostro paese si è fortemente concentrata su questi argomenti (con brillanti risultati e facendo “scuola” a livello internazionale), mostrando tra l’altro come l’efficienza economica e la redditività delle imprese non fossero condizionate dalla dimensione d’impresa (7). Molte ricerche hanno, infatti, sottolineato il rilevante orientamento all’innovazione e alla produzione di qualità, specie nelle imprese di media dimensione e nei distretti industriali in cui le imprese credono ancora nella produzione di qualità che non può che basarsi su fornitori e lavoratori di qualità e, di conseguenza, sui meccanismi di collaborazione e di apprendimento collettivo che trovano esplicitazione in gran parte a livello territoriale.
Purtroppo, negli ultimi anni, si sta affievolendo la capacità di analisi e di comprensione, da parte della ricerca, del cambiamento in atto nella struttura produttiva e occupazionale dei vari territori (compresi quelli di riferimento dei vari Atenei italiani), nei fabbisogni di servizi e di competenza professionali nel sistema produttivo, e sui fabbisogni di trasferimento tecnologico da parte delle imprese, sulle iniziative di successo e sulla capacità di diffondere le “buone pratiche”. Ciò avviene, soprattutto, perché si sta perdendo la volontà e, di conseguenza, la capacità di condurre “field research”.
È dunque auspicabile una ricerca sistematica sui cambiamenti in atto e sul ruolo delle relazioni tra ricerca e industria da condurre nei vari territori italiani con un approccio di ricerca – azione, con la partecipazione di diverse Università della regione o di regioni vicine, facilmente realizzabile vista l’esplicita volontà di collaborazione espressa dai Rettori presenti alla Tavola Rotonda di Ancona.
Osservazioni conclusive
Si è già ricordato lo scarso interesse da parte della grande maggioranza dei docenti e ricercatori universitari nei riguardi dell’impatto del loro lavoro sullo sviluppo economico-sociale, cioè della cosiddetta terza missione dell’Università (8). Ciò spiega e, a sua volta, è determinato dall’assenza di un confronto e un dibattito pubblico a scala sia nazionale che dei singoli Atenei sulla questione dei rapporti tra l’Università, da un lato, e il sistema produttivo e la società civile, dall’altro.
L’attenzione all’esterno potrebbe essere favorita dall’introduzione (per rispetto della responsabilità sociale dell’istituzione universitaria e non per obbligo di legge) di un processo di autovalutazione delle iniziative introdotte da ciascun Ateneo a sostegno dello sviluppo economico e sociale del territorio (9).
Ciò che spesso manca nella percezione dei docenti e dei Dipartimenti (ma spesso anche della Direzione dell’Università) è un’analisi sistematica dell’impatto dell’Università sul territorio, individuando i problemi risolvibili con iniziative in collaborazione con gli altri stakeholder e le opportunità da cogliere e sviluppare, a partire dal diffuso fabbisogno implicito di formazione continua, con tutti gli effetti moltiplicativi per altri servizi e per la maggior consapevolezza per organizzare nuovi percorsi didattici orientati alla potenziale domanda di lavoro di nuovi laureati.
L’organizzazione sistematica di seminari di documentazione sui risultati di ricerca raggiunti e di esplicitazione dei potenziali utilizzi in imprese già esistenti, o che si potrebbero avviare attraverso spin-off tecnologici e start-up ad alta intensità di conoscenze scientifiche e tecnologiche, rappresenta una ulteriore linea di comunicazione poco costosa e incredibilmente fertile, sia per gli studenti che per le imprese.
Un monitoraggio costante e sistematico dei fabbisogni di servizi didattici e di ricerca del mondo esterno e una valutazione del potenziale trasferimento tecnologico alle imprese rappresentano ancora strumenti fondamentali per lo sviluppo del territorio e per facilitare il reclutamento dei laureati con competenze elevate e specifiche di interesse per il mondo produttivo. La costituzione di laboratori misti (con partecipazione pubblica e privata) (10) e l’avvio di progetti comuni (con compartecipazione ai costi da parte di diversi attori pubblici e privati) costituiscono potenziali iniziative a sostegno dello sviluppo economico e sociale del territorio. Ciò consente di rafforzare non solo la fiducia reciproca ma anche la reputazione istituzionale dell’Università.
Si può ancora pensare ad accompagnare e rafforzare il network di competenze già presenti nei nuovi luoghi dell’interazione ricerca-impresa e di potenziale innovazione che stanno diventando alcuni dei numerosi coworking, ormai molto diffusi non solo nelle grandi città ma anche in aree relativamente periferiche, aiutando la trasformazione di quei luoghi non solo in termini di “incubatori” di imprese, ma anche di progetti comuni di investimento e di sviluppo.
Ciò dovrebbe favorire l’introduzione di comportamenti virtuosi in vari operatori economici e sociali (nella ricerca, nell’impresa e nelle istituzioni pubbliche) nella direzione della collaborazione interistituzionale e dell’innovazione. Non servono grandi finanziamenti pubblici per ottenere questi risultati; occorre incentivare la densificazione dei rapporti e l’avvio di iniziative di networking, che sono “time intensive”: Serve un orientamento e una sensibilità all’esterno, mostrare disponibilità e interesse nei confronti di operatori economico-sociali complementari, costruire un percorso progressivo di servizi all’esterno, lavorare su competenze professionali specifiche e valorizzarle per moltiplicare ed accrescerle, generando opportunità di nuovi lavori per i giovani laureati e risolvendo i problemi di continuo riposizionamento strategico delle imprese esistenti. Ciò favorirà la crescita della consapevolezza sui rischi e le opportunità, e l’introduzione di risposte strategiche rispetto agli scenari ipotizzabili (11) (che è cosa più complessa che cercare di ridurre i costi di produzione delle imprese …).
È curioso come queste prospettive fossero già presenti in alcuni “visionari” all’inizio degli anni Novanta, e come si siano frapposti ostacoli comportamentali e inerzia burocratica che di fatto hanno generato opposizione/conservazione al cambiamento sino a bloccare il realizzarsi di quelle prospettive.
Gioacchino Garofoli, Università dell’Insubria
Riferimenti bibliografici
AA.VV. (1995), I rapporti Università – Industria in Italia, Economia e Politica Industriale, n. 88, pp. 21-91
Asheim B.T., Isaksen A., Nauwelaers G., Todtling F. (eds.) (2003), Regional Innovation Policy for Small-Medium Enterprises, Edward Elgar, Cheltenham (UK) and Northampton (MA-USA)
De Bernardy M. (1999), Reactive and proactive local territory: co-operation and community in Grenoble, Regional Studies, vol. 33, no. 4, June, pp. 343-352
Coltorti F., Garofoli G. (2011), Le medie imprese in Italia, Economia Italiana, n. 1
Garofoli G (2015), Research, Innovation and Territorial Development, Symposium on Regional innovation and the mechanism of regional development, Hosei University, Tokyo, 30th January
Garofoli G., Musyck B. (2001), Innovation Policies for SMEs in Europe: towards an Interactive Model?, Regional Studies, vol. 35. N. 9, December
IReR (2010), The Region of Lombardy, Italy: Self-Evaluation Report, OECD Reviews of Higher Education in Regional and City Development, IMHE, Paris, www.oecd.org/edu/imhe/regionaldevelopment
Keeble D. (2002), Università e tecnologia: i parchi scientifici-tecnologici inglesi nella regione di Cambridge, in Quadrio Curzio A., Fortis M., Galli G.P. (a cura di), La competitività dell’Italia. I. Scienza, ricerca, innovazione, Il Sole 24 Ore, Milano
Longhi C. (2002), L’innovazione nei settori strategici: l’industria aerospaziale in Francia, in Quadrio Curzio A., Fortis M., Galli G.P. (a cura di), La competitività dell’Italia. I. Scienza, ricerca, innovazione, Il Sole 24 Ore, Milano
OECD (2011), Higher Education in Regional and City Development: Lombardy, Italy, OECD, Paris
Pecqueur B. (2007), Des pôles de croissance aux pôles de compétitivité: une nouvelle géographie du capitalisme, Réalités Industrielles, mars 2007
Perroux F. (1955), La notion de pôle de croissance, Economie Appliquée, n. 1-2
Perroux F. (1961), La firme motrice et la région motrice, in AA.VV., Théorie et Politique de l’Expansion Régionale, Actes du Colloque International de l’Institut de Science Economique de l’Université Libre de Liège, Bruxelles
Saxenian A.L. (1994), Regional Advantage: Culture and Competition in Silicon Valley and Route 128, Harvard University Press, Cambridge (Mass-USA)
Trullen J. (2007), La nueva política industrial española: innovación, economías externas y productividad, Economía Industrial, no. 363, pp. 17-31
Note
(1) Erano presenti 5 Rettori oltre ad un ex Rettore (Patrizio Bianchi, ora Assessore alla Formazione e alle Politiche del Lavoro in Emilia-Romagna): Angelo Oreste Andrisano (Università di Modena e Reggio Emilia), Alberto Felice De Toni (Università di Udine), Paola Inverardi (Università dell’Aquila), Sauro Longhi (Università Politecnica delle Marche), Maurizio Tira (Università di Brescia).
(2) L’attenzione ai problemi pratici da parte degli ingegneri facilita i rapporti con le imprese e rende più semplice l’individuazione dei fabbisogni e la valutazione delle competenze e conoscenze necessarie al trasferimento tecnologico. Ciò nonostante il ruolo degli ingegneri (e dei Rettori ingegneri) non è sufficiente a garantire il gioco interattivo delle relazioni ricerca-industria, che necessita di ulteriori competenze e sensibilità. Non è un caso che nelle nuove università italiane la terza missione funziona adeguatamente quando esistono anche le Facoltà di Economia e di Medicina.
(3) All’Università di Modena e Reggio sono stati avviati 10 spin-off e 19 start-up ancora attive, all’Università Politecnica delle Marche 39 spin-off (di cui 31 attivi), all’Università dell’Aquila 13 spin-off, all’Università di Udine 34 spin-off e 86 brevetti depositati – di cui 30 dal 2010 -, all’Università di Brescia 8 spin-off e 28 brevetti.
(4) Ciascuna Università aveva, tra l’altro, predisposto un documento sull’impatto economico-sociale dell’Università, con una prima autovalutazione della capacità di innescare rapporti con l’esterno (cfr. Appendice a IReR, 2010). Quel documento avrebbe potuto rappresentare un punto di partenza interessante per comunicare all’esterno quali sono i potenziali servizi che si potrebbero fornire all’esterno. Suggerisco agli studiosi interessati a questo argomento oltre che ai Rettori e ai Direttori Generali delle Università di confrontarli con la comunicazione (estremamente burocratica) delle potenzialità di relazioni con il mondo produttivo che è riscontrabile sui siti web delle Università.
(5) Se si escludono, negli anni più recenti, gli interventi in alcune regioni più sensibili al tema.
(6) Nella proposta di legge spagnola sulla politica di innovazione basata sulle agglomerazioni di impresa viene fatto esplicito riferimento ai vari modelli esistenti di organizzazione territoriale della produzione (poli di sviluppo à la Perroux, distretti industriali à la Marshall – Becattini, ai cluster à la Porter). In modo estremamente pratico nella legge si sottolinea che non importa quale sia il modello di riferimento per l’economia reale e i territori interessati; ciò che è rilevante è l’esistenza dell’agglomerazione di imprese e di centri di ricerca e la loro volontà di rafforzare le relazioni di interazione e collaborazione.
(7) Cfr, ad esempio, Coltorti e Garofoli, 2011.
(8) Ciò paradossalmente è stato accentuato dall’introduzione dei meccanismi di valutazione della ricerca che ha determinato l’introduzione di algoritmi quantitativi e burocratici (senza valutazione qualitativa di merito) ed ha provocato comportamenti sempre più individualistici, quando non opportunistici, erodendo la capacità di organizzare team di ricerca con obiettivi più complessi e di medio-lungo periodo e di progettare interventi di interesse collettivo. Il risultato paradossale è stata la chiusura (disciplinare e culturale) piuttosto che l’apertura, il conformismo piuttosto che l’innovazione.
(9) La consapevolezza istituzionale su questa dimensione è molto più rilevante per correggere i punti di debolezza e rafforzare competenze e capabilities degli Atenei piuttosto che far riferimento a presunte posizioni apicali in classifiche prodotte da istituzioni varie e giornali.
(10) Rappresenterebbero una sorta di espansione e continuità delle iniziative dei Centri “Grandi Strumenti” già avviati in diversi Atenei.
(11) La domanda implicita di questi servizi è molto elevata e non è affrontabile da società di consulenza (è un problema culturale e di sensibilizzazione a temi complessi e non risolvibili con pacchetti pressoché standard per essere economici…). L’esplicitazione di questi fabbisogni passa attraverso ricerche continuative e attraverso la costruzione della fiducia reciproca. Ciò consente di allargare continuamente la platea dei potenziali utenti di servizi di interazione, con dispiego di energie per la formazione, la diffusione di conoscenze , la produzione di risultati delle ricerche applicate, l’inserimento di laureati nelle imprese, la formazione di nuove imprese, il trasferimento tecnologico, lo sviluppo di progetti in partnership.