di: Simone Rusci
EyesReg, Vol.7, N.5, Settembre 2017
A distanza di più di cinquant’anni dalla tentata riforma urbanistica di Fiorentino Sullo rimangono ancora vivi ed attuali il dibattito e gli interrogativi su come sarebbe stato il paese se la riforma, invece che solo tentata, fosse stata riuscita. Lo testimonia un libro di recente stampa “Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo” curato da Ivan Blecic (Blecic 2017), che raccoglie diverse spigolature sugli esiti e sugli scenari aperti – e chiusi – da quella che ancora oggi può considerarsi una delle più agitate, controverse e fertili stagioni dell’urbanistica nell’ultimo secolo. Al centro delle riflessioni di allora (e di ora) la questione della rendita e del suo rapporto con l’urbanistica. Non è infrequente infatti imbattersi in proposte che, pur riconoscendo la difficoltà politica e giuridica, individuano ancora nella pubblicizzazione dei suoli edificabili la panacea alle distorsioni prodotte dallo sviluppo urbano, ed in particolare la strategia principale e definitiva per la “contestazione” (Campos Venuti 2011) ed eliminazione della rendita urbana.
Ma è davvero possibile eliminare la rendita attraverso la modifica del regime proprietario dei suoli?
È questo un interrogativo al quale solo oggi, con l’alleggerimento del carico ideologico sulla questione, è possibile dare risposta, almeno sul fronte urbanistico, senza timore di essere tacciati di collusione con il blocco edilizio.
Volendo schematizzare il meccanismo posto alla base delle contestazioni riformiste, di ieri e di oggi, potremmo idealizzare il caso, ritenuto ormai di scuola, nel quale ad un terreno agricolo, posto al margine della città, viene attribuita dal decisore pubblico una capacità edificatoria che a livello generale è contingentata. Il terreno portatore di edificabilità diventa, senza sforzo alcuno del conduttore, un bene scarso e dunque capace di manifestare una rendita, che viene presto incamerata dal proprietario nel momento in cui è dato l’avvio alla valorizzazione immobiliare. A questo meccanismo le proposte riformiste oppongono un sistema nel quale la proprietà dei suoli edificabili passa al soggetto pubblico, attraverso un esproprio che riconosce all’originario proprietario il solo valore agricolo, eliminando così, almeno nelle intenzioni, la produzione della rendita. Prescindendo per un attimo dalle oggi insormontabili ragioni giuridiche sul diritto della proprietà privata (Carrozza 2017), che rendono tale meccanismo inattuabile, vediamo cosa succede alle diverse forme di rendita nello scenario riformista: il Comune acquisisce a valore agricolo il terreno, per mezzo dell’esproprio, e cede il diritto di superficie ai privati per la realizzazione dei fabbricati. Quest’ultimi vengono così venduti sul mercato ad un prezzo depurato da quel plusvalore (rendita assoluta) che si sarebbe formato se il terreno fosse rimasto all’originario proprietario.
Se il prezzo unitario richiesto per il diritto di superficie è fissato uguale per tutte le aree periurbane (progetto di legge Piccinato e Zaccagnini), una volta ceduto tale diritto si assisterebbe nella determinazione del prezzo degli immobili ad una diversificazione di valore rispetto alle diverse localizzazioni delle aree; quelle con caratteri posizionali migliori (perché più panoramiche, più connesse, più centrali ecc.) godrebbero di valori di mercato maggiori (rendita differenziale) che verrebbero incamerati dall’imprenditore (privato) titolare del diritto di superficie.
Nel caso in cui il diritto di superficie fosse invece concesso in base ad un’asta pubblica (disegno di legge Sullo) tali plusvalori si manifesterebbero come maggiore disponibilità a pagare un prezzo per le aree migliori da parte del concessionario e sarebbero dunque incamerati in prima istanza dal soggetto pubblico. Tali plusvalori si trasferirebbero però (a causa dell’incremento del costo generale di produzione) ai soggetti che, una volta terminati gli immobili, acquistassero le unità immobiliari.
In entrambi i casi ogni modificazione di valore successiva alla concessione del diritto di superficie, derivata dalla crescita e dalle caratteristiche del contesto (e dunque ancora una volta rendita differenziale) sarebbe comunque goduta dal privato proprietario. È quest’ultimo un caso riscontrabile diffusamente in molti quartieri nati da interventi pubblici attraverso l’esproprio preventivo delle aree (INA casa, legge 167 ecc), dove oggi, complice la crescita della città, si riscontrano valori di mercato del tutto analoghi a quelli che si sarebbero ottenuti in condizione di libero mercato, a dimostrazione che la rendita non interviene nella determinazione del prezzo degli immobili (“corn is not high because a rent is paid, but a rent is paid because the corn is high”) (Ricardo 1815).
Emergono da queste semplificazioni alcune evidenze. In primo luogo che la rendita non è un’entità eliminabile, essa non dipende dal regime dei suoli ma solamente dalla non indifferenza delle attività umane rispetto alla loro collocazione nello spazio. Per usare un’efficace provocazione di Blecic, la rendita si eliminerebbe solo attraverso l’eliminazione dei soggetti umani o attraverso l’eliminazione dello spazio, azioni che ancorché condivise esulano dal campo dell’urbanista. Se questa constatazione è ovvia in campo economico (non occorre qui ricordare i contributi di Ricardo, Von Thunen e Alonso solo per citare i principali) non è possibile dire lo stesso in campo urbanistico, dove per oltre 50 anni si è accarezzata l’illusione di poter eliminare la rendita attraverso dispositivi normativi o urbanistici; ”si tratta in sostanza di eleminare tutte quelle rendite parassitarie non ascrivibili al lavoro umano, bensì discendenti da altri fattori quali: la normativa pubblica urbanistica contenuta nei piani (rendita di destinazione nascente dalla disciplina urbanistica), la naturale posizione dell’immobile (rendita di posizione assoluta e differenziale), gli investimenti collettivi concretantisi in opere di urbanizzazione” (Corso 1971; Salvia, Teresi 1976).
Anche nel caso in cui la riforma urbanistica fosse stata attuata, essa avrebbe consentito la sola cattura della rendita assoluta – quella derivante dall’attribuzione di edificabilità – ma non certo quella della rendita differenziale – derivata dalla non riproducibilità delle localizzazioni urbane – che si sarebbe manifestata esattamente con le stesse intensità e dinamiche riscontrabili nel libero mercato.
Rispetto alla rendita urbana, lo scenario riformista sarebbe stato dunque del tutto analogo a quello attuale, nel quale la rendita assoluta è catturata in modo efficace dalle diverse forme della perequazione urbanistica (Pompei, 1998; Micelli 2011; Stanghellini, 2013) mentre la rendita differenziale è goduta dalla proprietà immobiliare. In questo senso, limitatamente alla questione della rendita, potremmo dire che la riforma urbanistica ha trovato piena attuazione nella perequazione.
Tornando a percorrere il confine che separa i contributi economici da quelli urbanistici (confine spesso assai impermeabile) possiamo rilevare come laddove sono stati condotti confronti tra condizioni di libero mercato delle aree e condizioni di pubblicizzazione (Ball 1985; De Meza e Gould 1987; Weitzman 1974) è emerso non soltanto che la condizione di libero mercato è economicamente più efficiente, ma che è quella che in maniera migliore garantisce una distribuzione spaziale con minori livelli di congestionamento delle aree centrali (a causa degli elevati valori di rendita) ed una più equa distribuzione sociale dei vantaggi localizzativi (Camagni 1993). Nel caso di libero mercato la rendita agisce infatti – com’è noto – come prezzo che tiene in equilibrio la domanda e l’offerta di localizzazioni, garantendo così un sistema trasparente ed efficiente nell’attribuzione dei vantaggi ai diversi soggetti che competono nello spazio; nel caso in cui invece le localizzazioni fossero attribuite in maniera arbitraria, prescindendo dai meccanismi di mercato, si originerebbe un sistema nel quale i vantaggi localizzativi, e dunque economici, vengono attribuiti in maniera arbitraria rafforzando così ulteriormente la discrezionalità demiurgica del pianificatore, e di conseguenza la sua fragilità rispetto ai noti e diffusi meccanismi corruttivi.
È dunque evidente come l’eliminazione della rendita attraverso dispositivi normativo-urbanistici sia stata (e sia) un’illusione, amplificata e protratta nel tempo da una visione forse eccessivamente agiografica di quello che sarebbe potuto accadere se la riforma di Sullo fosse stata attuata. Se dunque la discussione urbanistica sull’eliminazione della rendita appare ampiamente superata, non appaiono certo superati gli sforzi teorici e pratici per individuare efficaci sistemi per la sua cattura (Camagni 2012), soprattutto per quella componente differenziale che continua a rappresentare una forma di iniquità urbana.
Rimane senza dubbio valida l’impostazione e la qualità generale del disegno di legge Sullo, che avrebbe certamente alleggerito le pressioni speculative e corruttive legate alla formazione della rendita assoluta e di conseguenza reso più libere le scelte di pianificazione. Era questo del resto – e non l’eliminazione della rendita – il vero bersaglio del Ministro: “Scopo della legge urbanistica non dovrebbe essere di punire o sanzionare i proprietari terrieri, ma di costruire città ordinate e armoniche…Non si tratta tanto di colpire l’iniquo arricchimento quanto di impedire che l’ansia di speculare sulle aree fabbricabili condizioni lo sviluppo delle città” (Sullo 1964). In questo senso la riforma è (ahi noi) pienamente naufragata.
Simone Rusci
Riferimenti bibliografici
Ball M. (1985), The urban Rent Question. Enviroment and Planning, 17: 503-525.
Blecic I. (2017), a cura di, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo. Sguardi ed orizzonti sulla proposta di riforma di Fiorentino Sullo. Milano: Franco Angeli.
Camagni R. (1993), Economia urbana: principi e modelli teorici. Roma: La Nuova Italia Scientifica.
Camagni R. (2012), Le città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione, EyesReg, 2 (2): 60-63.
Campos Venuti G. (2011), Un bolognese con accento trasteverino. Autobiografia di un urbanista. Bologna: Pendragon editore.
Carrozza P. (2017), “Il terribile delitto: tensioni e discontinuità nel rapporto tra proprietà privata e beni pubblici dagli albori dello stato moderno ai giorni nostri”. In I. Blecic (A cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo. Sguardi ed orizzonti sulla proposta di riforma di Fiorentino Sullo,. Milano: Franco Angeli, pp 101-117.
Corso G. (1971), Il controllo del mercato delle aree nella disciplina urbanistica. Cappugi, Palermo.
De Meza D., Gould J. (1987), Free Access versus Private Property in a Resource: Income Distribution Compared. Journal of Political Economy, 95(6): 1317-1325.
Micelli E. (2011), La gestione dei Piani urbanistici. Perequazione, accordi, incentivi. Venezia: Marsilio Editore.
Pompei S. (1998), Il Piano regolatore perequativo. Aspetti strutturali, strategici ed operativi. Milano: Hoepli.
Ricardo D. (1815), An Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock; trad it. Saggio sull’influenza di un basso prezzo del grano sui profitti del capitale, ISEDI 1976
Stanghellini S. (2013), Perequazione, compensazione, fattibilità, INU edizioni.
Sullo F. (1964), Lo scandalo urbanistico. Firemze: Vallecchi editore.
Weitzman M. (1974), Free Access vs. Private Ownership as Alternative System for Managing Common Property. Journal of Economic Theory, 8(2): 225-234.
at 10:43
Ma la questione non è l’eliminazione della rendita urbana bensì la sua gestione… E’ talmente evidente ed acclarato ormai da tempo. Anzi, poiché ormai quasi tutti si concorda nel puntare al cd “consumo 0 di nuovo suolo”, la questione è quella della gestione della “rendita di trasformazione” come ad es. è previsto nei PRINT a Roma.
Questo lo si deve fare con “politiche urbane” in cui rientrino anche quelle urbanistiche ricordando che l’urbanistica è una sorta di “meta disciplina” che ha/è al tempo stesso obiettivi e strumenti.
Una raccomandazione: pretendere che si torni ad usare la parola efficacia al posto dell’efficienza, poiché l’urbanistica rientra nelle scelte politiche, cioè della politica che è “l’arte di gestire” la polis. E l’economia deve essere a suo servizio e non viceversa.
D’altronde le scelte di affidarsi al mercato sono state sperimentate (gli americani userebbero il termine “social sperimentation”) da oltre 35 anni… ed i risultati in termini di beneficio dei cittadini – cioè la loro efficacia – è stata bassissima in termini di qualità di vita… solo periferie senza servizi, centri commerciali
che stanno facendo chiudere i negozi di vicinato (quelli che servono alla popolazione maggioritaria, ovvero gli anziani)e “gentrification” che ha svuotato i centri storici di popolazione ed attività antiche trasformandoli in “non luoghi”… Ecco perché servono “politiche urbane” che governino la rendita, che come giustamente dici esiste da sempre, da quando esiste qualcosa che si chiama città. L’alternativa è lasciare tutto questo ai populismi ed a giuste rivolte dei territori e delle aree periferiche, come mostra la BREXIT.
Cordialità
Stefano Aragona
Ing. Ph.D. Ricercatore in Urbanistica
at 08:30
Concordo con ciò che dici, soprattutto sulla necessità di riaccendere un dibattito sulle politiche urbane più che sugli strumenti. In questo senso una riflessione sulla gestione della rendita, alleggerita dai radicalismi ideologici del ‘900, credo che sia cruciale nella definizione di nuovi strumenti capaci di garantire sviluppo ed equità in un contesto nel quale il “consumo di suolo 0” appare un effetto obbligato della crisi più che una libera scelta di governo. Allo stesso modo ti rispondo sulla questione efficacia vs efficienza, dove quest’ultima non si configura più come un paradigma ideologico “produttivista”, quanto come condizione imposta dalla scarsità di risorse. Piaccia o no ai populisti.
Un saluto.
Simone Rusci