di: Sabrina Iommi
EyesReg, Vol.1, N. 4 – Novembre 2011.
La necessità di rivedere confini e funzioni degli enti locali, in particolar modo di comuni e province, è un tema che periodicamente torna al centro del dibattito politico, ma che raramente si trasforma poi in provvedimenti operativi. Non di rado, inoltre, a fronte di una discussione che mette in evidenza le diseconomie presenti nell’assetto esistente, connesse all’eccesso di polverizzazione territoriale e alla replicazione delle competenze, i provvedimenti che riescono a vedere la luce sembrano muoversi in direzione opposta, basti ricordare la recente creazione di nuove piccole province. E’ dunque forte il sospetto che laddove la riflessione resti confinata al dibattito politico, gli esiti finiscano per risultare funzionali agli interessi di volta in volta più rappresentati.
L’obiettivo del presente articolo è dunque quello di provare a ragionare sul tema, introducendo qualche argomento di carattere più “scientifico”, tenendo in mente che tra gli interventi più richiesti e mai realizzati vi sono nell’ordine: l’abolizione delle province, l’accorpamento dei comuni, l’istituzione delle città metropolitane e, decisamente con meno frequenza, l’accorpamento delle regioni.
Iniziamo quindi dalla funzione generale degli enti locali. Le ragioni fondative di un sistema amministrativo basato su diversi livelli di governo sono almeno tre: a) la necessità di garantire l’applicazione locale delle leggi nazionali; b) quella di raccogliere e rappresentare i bisogni della popolazione locale; c) quella, infine, di offrire servizi di pubblica utilità. Secondo la teoria economica, l’argomento principale a favore del decentramento delle funzioni amministrative risiede proprio nel raggiungimento di maggiori livelli di efficienza nella fornitura di beni e servizi alla popolazione, derivante da una migliore percezione dei bisogni, dalla possibilità di differenziazione degli interventi, oltreché da un maggiore potere di controllo da parte dei cittadini/utenti. La stessa teoria, però, sottolinea come il decentramento delle funzioni sia soggetto ad un trade-off, per cui sotto certe soglie dimensionali i costi fissi organizzativi risultano superiori ai vantaggi, si creano cioè delle diseconomie. I criteri generali cui occorre far riferimento nell’articolazione della struttura istituzionale sono dunque i principi della sussidiarietà e del beneficio, che tendono ad avvicinare le funzioni ai cittadini, mitigati però da quello dell’adeguatezza, che tende invece a tutelare la dimensione efficiente della produzione dei servizi (cfr. Bosi, 2006).
Rispetto ai principi teorici richiamati, l’attuale assetto dei diversi livelli di governo locale, relativamente a dimensione degli enti e funzioni assegnate, è il risultato della stratificazione temporale di vicende storico-politiche e di riforme amministrative spesso orientate ad obiettivi contrastanti, per cui nella maggior parte dei casi l’architettura istituzionale appare lontana da quella teoricamente desiderabile.
Guardiamo innanzitutto alla questione dimensionale. La maglia territoriale dei comuni, in particolare, in quanto di più antica formazione, appare poco adeguata all’attuale distribuzione territoriale delle attività produttive e residenziali. Il dato che emerge con maggiore evidenza all’analisi socioeconomica è, infatti, quello dell’enorme ampliamento dei bacini territoriali in cui si svolgono le attività quotidiane di residenza-produzione-consumo, approssimati di solito dagli ambiti del pendolarismo giornaliero per lavoro e studio. E’ impressionante, in proposito, confrontare il numero degli SLL italiani calcolati dall’Istat al 2001 (686) con quello dei comuni (oltre 8mila). E’ evidente che, mentre le relazioni socioeconomiche si sono riorganizzate sul territorio in funzione del progresso tecnologico avvenuto nell’ambito dei trasporti, come pure nelle modalità di produzione di beni e servizi, l’assetto istituzionale, che dovrebbe governare tali processi è rimasto invece cristallizzato su modelli organizzativi perlomeno ottocenteschi.
Lo scarto tra confini reali e confini amministrativi dei bacini di vita è un problema, però, che solo in parte riguarda i piccoli comuni, mentre molto più spesso caratterizza le aree di “saldatura” delle piccole e medie città e le aree metropolitane. Le fonti dell’inefficienza per le diverse tipologie territoriali sono differenti: nel caso dei comuni di piccola dimensione demografica, il problema principale è da individuarsi nel mancato raggiungimento di soglie di domanda in grado di abbattere i costi fissi di erogazione dei servizi (cfr. Caselli e Iommi, 2003), nel caso delle piccole e medie città e delle aree metropolitane, invece, il difetto sta nella sottostima della domanda reale di servizi pubblici (calcolata di solito alla scala della città amministrativa, invece che a quella della città di fatto) e nell’adozione di politiche pubbliche poco lungimiranti ed eccessivamente localistiche, soprattutto in materia di pianificazione territoriale (cfr. Camagni, Gibelli e Rigamonti, 2002). Se è innegabile, dunque, che l’assetto delle amministrazioni locali ha urgente bisogno di essere “aggiornato” per tener conto del nuovo pattern spaziale assunto dai processi economici e sociali, tale necessità riguarda tutta la maglia comunale (e di conseguenza anche quella provinciale) e non solo gli enti di piccola dimensione demografica. Ne segue che il criterio di revisione da adottare non può limitarsi all’individuazione di una taglia demografica minima, ma deve essere affiancato dal principio della massima corrispondenza tra il bacino territoriale in cui avvengono le attività quotidiane e quello di governo delle stesse (cfr. Calafati, 2009).
Guardiamo, infine, al tema delle funzioni assegnate. L’analisi della composizione della spesa corrente di comuni e province, se da un alto evidenzia alcune sovrapposizioni, dall’altro mette in luce anche due vocazioni funzionali ben distinte (Tabella 1). Le amministrazioni comunali risultano infatti più orientate all’erogazione di servizi alla persona (servizi educativi per l’infanzia, servizi di supporto all’istruzione, servizi socio-assistenziali per anziani, servizi culturali e ricreativi), mentre quelle provinciali hanno una maggiore specializzazione nel settore della viabilità e dei trasporti pubblici e nella promozione dello sviluppo economico e del mercato del lavoro (formazione professionale). Più controversa è, invece, l’assegnazione delle funzioni relative alla gestione del territorio e dell’ambiente, perché a parte il caso della difesa idrogeologica (assegnata prevalentemente al livello provinciale) e della pianificazione urbanistica (assegnata prevalentemente al livello comunale), sembrano emergere margini di sovrapposizione eccessivi in merito alla gestione del servizio idrico e di quello di smaltimento dei rifiuti.
Tabella 1. Composizione % delle spese correnti di comuni e province. Italia 2009
Fonte: elaborazioni su dati Istat
Alla domanda se sia opportuno o meno abolire il livello amministrativo provinciale, sembra dunque ragionevole rispondere che mantenere la distinzione tra livello comunale e livello provinciale ha senso a condizione di diversificare più chiaramente di quanto già accada le funzioni assegnate ai due soggetti, accrescendo la specializzazione dei comuni nell’erogazione dei servizi alla persona e quella delle province nei servizi connessi alla viabilità, ai trasporti, alla gestione del territorio e dell’ambiente e, in genere, in tutte quelle funzioni che richiedono bacini territoriali maggiori per raggiungere l’efficienza produttiva.
La revisione delle dimensioni territoriali è però indispensabile per entrambi i livelli ed è ragionevole attendersi che essa potrebbe avere come ricaduta positiva anche la riduzione del peso della spesa per le funzioni di amministrazione generale, che oggi assorbe circa il 30% delle risorse complessive di entrambi i livelli istituzionali considerati.
Sabrina Iommi, IRPET – Istituto Regionale Programmazione Economica Toscana
Riferimenti bibliografici
Bosi P. (a cura di) (2006), Corso di scienza delle finanze, Bologna: Il Mulino.
Calafati A.G. (2009), Economie in cerca di città: la questione urbana in Italia, Roma: Donzelli.
Camagni R., Gibelli M.C., Rigamonti P. (2002), I costi collettivi della città dispersa, Firenze: Alinea.
Caselli R., Iommi S. (2003), I servizi pubblici locali nei piccoli comuni della Toscana, Firenze: IRPET.
at 11:05
Forse un’analisi più approfondita e metodologiamente corretta dovrebbe essere svolta separando tra i servizi resi con personale proprio, quelli gestiti mediante società in house e quelli, infine, realizzati grazie all’apporto di professionisti esterni.