Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Nuova imprenditorialità mancata e perdita di occupazione: prime valutazioni sugli effetti della pandemia sul sistema produttivo italiano

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di: Marco Pini e Alessandro Rinaldi

EyesReg, Vol.10, N.3, Maggio 2020

This time is the first time, ovvero quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca.

Stiamo attraversando una crisi forse mai conosciuta per la sua ampiezza, intensità e specificità. La pandemia di COVID-19 sta colpendo tutti i paesi del mondo generando effetti di enorme portata, provocando recessioni economiche mai viste dal secondo dopoguerra, frutto di uno shock tutto particolare: perché un 50% di shock che colpisce tutti i settori non è uguale ad un 100% di shock che colpisce il 50% dell’economia (Guerrieri et al., 2020; Rowe, 2020), come sta avvenendo oggi a causa del lockdown.

Ma l’aspetto forse più caratterizzante di questa crisi è uno stato di incertezza pervasiva: sul futuro andamento dei contagi, sul tasso di mortalità effettivo, sulla individuazione di contromisure efficaci contro il virus, sulla durata del distanziamento sociale e le relative misure di contenimento, sugli effetti di medio-lungo termine sull’economia e su come sarà la velocità della ripresa. Bloom et al. (2020) hanno stimato che il 60% della caduta futura del PIL americano è ascrivibile proprio al fattore “incertezza”. In pratica, affrontiamo il futuro avendo pochi punti di ancoraggio utili a tracciare scenari realistici, non sapendo come e quando ritorneremo ad una nuova “normalità”.

In questo quadro, le analisi economiche (per una review cfr. Banca d’Italia, 2020) sembrano prediligere valutazioni prospettiche su un futuro difficile da decifrare, e le politiche economiche su un presente fatto di tante imprese da salvaguardare alle prese con difficoltà di liquidità e non solo: mentre ci stiamo concentrando soprattutto su ciò che abbiamo e che potremmo perdere, minore attenzione sembra essere rivolta a ciò che abbiamo già perso e rischiamo di perdere per sempre. Per una volta guardiamo al dito oltre che alla luna, poiché in pericolo sono le nostre mani.

Per affrontare il presente e l’imminente sono determinanti informazioni statistiche tempestive, come ad esempio quelle del Registro delle imprese delle Camere di commercio. Nel bimestre marzo-aprile 2020 il numero delle iscrizioni di impresa (di seguito chiamate anche start-up) si è praticamente dimezzato rispetto allo stesso bimestre del 2019 (Fig. 1): -45,1%, che in valori assoluti significa quasi -32 mila imprese iscritte. Dalle 70,6 mila imprese iscritte tra marzo a aprile dell’anno scorso (in media con i valori degli ultimi anni) si è caduti a 38,8 mila negli stessi mesi di quest’anno.

Per il momento, questa crisi sta colpendo in particolare la natalità di impresa (UNIONCAMERE, 2020), specificamente nelle regioni centro-settentrionali (Fig. 2) dove non a caso il virus si è diffuso maggiormente: solitamente si parla di Due Italie davanti a numeri più negativi per le regioni meridionali, mentre in questo caso la situazione si inverte. Le cessazioni di impresa effettive non hanno mostrato particolari scostamenti, segnando tra l’altro una riduzione tendenziale (-22,8%) nel bimestre marzo-aprile 2020. In parte ciò è verosimilmente ascrivibile sia alle misure di sostegno del Governo (e alla loro attesa da parte delle imprese) sia alla capacità di resilienza del nostro sistema produttivo e, probabilmente, come anche per parte della riduzione delle iscrizioni, per effetto dei decreti #IoRestoaCasa. Ciò non significa che nel prossimo futuro vi siano degli aumenti delle cessazioni di attività: ad esempio l’Ufficio studi Confcommercio ha stimato una potenziale perdita di 270 mila imprese del commercio e servizi se non si dovesse verificare una riapertura piena ad ottobre (Confcommercio, 2020).

Fig. 1 – 2020: “Maledetta primavera” (iscrizioni e cessazioni effettive di impresa nei bimestri marzo-aprile dal 2011 al 2020 e variazioni % tendenziali)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Infocamere

Fig. 2 –“L’inversione delle Due Italie” (variazioni % tendenziali delle  iscrizioni di impresa nel bimestre marzo-aprile 2020)

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Infocamere

Ciò che è accaduto in Italia non è molto distante da quello che sta accadendo anche in altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti nell’ultima settimana di marzo la riduzione delle iscrizioni è stata del 40% rispetto alla stessa settimana del 2019 (Haltiwanger, 2020), variazione non sperimentata nemmeno durante l’ultima Grande recessione.

Numeri, quelli dell’Italia, che ci dicono che rischiamo di perdere una generazione di imprenditori, con conseguenze negative sulle capacità di sviluppo del Paese. Elevati livelli di start-up rate producono infatti effetti positivi, e peraltro persistenti, a livello macroeconomico (Gourio et al., 2016; Sedlácek e Sterk, 2017), spingendo la produttività e la crescita reale del paese (Sedlácek, 2019), incidendo anche sulla velocità della ripresa post-crisi (Clementi, Palazzo, 2016).

Guardando ai dati dell’Italia (Fig. 3), in effetti, fino a qualche anno fa l’andamento della natalità di impresa si dimostrava piuttosto correlata in senso positivo (e con alta significatività) con quello del PIL (basti pensare che dal 2000 fino al secondo trimestre 2016 la correlazione su dati trimestrali di trend era pari a 0,6, p<0,01; sull’intero periodo 1T-00 – 4T-19 scende a 0,4, p<0,01), così come la mortalità di impresa in senso negativo (correlazione periodo 1T-09 – 4T19: -0,4, p<0,01). Solo negli ultimi anni si sta assistendo ad una divaricazione di andamento che potrebbe rappresentare un campanello d’allarme considerando gli effetti che un declino delle start-up potrebbe produrre nel medio-lungo termine come già detto. 

Fig. 3 –“Il legame tra imprenditorialità e ciclo economico” (iscrizioni, cessazioni effettive di impresa e PIL reale, trend(a) su dati trimestrali)

(a) Trend calcolato con metodo TRAMO-SEATS. I dati delle cessazioni effettive sono disponibili dal primo trimestre 2009.

 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Infocamere e ISTAT

Un impatto importante della natalità di impresa sull’economia è quello relativo alla creazione di occupazione, rispetto al quale esistono diversi studi sull’ultima Grande recessione (Sedlácek, 2019; Ayres, Raveendranathan, 2016; Gourio et al., 2014).

Sebbene la natalità di impresa potrebbe scontare un elevato tasso di mortalità a distanza di pochi anni, le imprese che riescono a sopravvivere (secondo ricerche del Sistema camerale, la perdita è di una impresa su 5 dopo 3 anni e di più di una impresa su 3 dopo 5 anni, UNIONCAMERE, 2019) mostrano tassi di crescita occupazionale superiori alle imprese preesistenti (Haltiwanger et al., 2013). È così che la perdita di una generazione di nuovi imprenditori rischia di causare un effetto isteresi provocando una persistente riduzione del livello di occupazione potenziale nel medio-lungo termine e un contestuale aumento del tasso naturale di occupazione: in quanto le imprese mature – quelle che contribuiscono alla fetta maggiore di occupazione – di domani saranno per larga parte le nuove imprese di oggi (Sedláček, 2019). Basti pensare che già oggi in Italia le imprese che hanno non più di cinque anni contribuiscono a circa un quarto dell’occupazione complessiva privata del sistema imprenditoriale (con riferimento al comparto extra-agricolo, fonte: ISTAT).

Quindi, appare particolarmente importante studiare l’impatto dell’attuale crisi dal punto di vista dell’imprenditorialità, partendo dal misurare ciò che abbiamo già perso. Se le nuove imprese sono fonte di occupazione, allora diventa essenziale chiedersi quanta nuova occupazione (al netto di coloro che erano già occupati) si è persa a causa della riduzione della natalità di impresa durante i due mesi di lockdown. Esistono già dei primi studi in merito riguardo agli Stati Uniti (Sedláček, Sterk , 2020a, 2020b).

Per l’Italia si è cercato di misurare ciò che abbiamo già perso in termini di nuovi occupati dalla riduzione delle start-up in questi due mesi di lockdown, eseguendo stime basate su informazioni di fonte ufficiale ISTAT relativamente all’Archivio statistico delle imprese attive (ASIA) e alla Rilevazione continua sulle Forze di lavoro, oltre a quelle già citate derivanti dal Registro delle imprese delle Camere di commercio. Prime stime (questo articolo rappresenta una anticipazione dei risultati che saranno approfonditi in un articolo scientifico in corso di pubblicazione) indicano che nei soli due mesi di marzo e aprile di quest’anno la riduzione delle imprese iscritte ha portato con sé una perdita potenziale di nuova occupazione pari a 31.400 unità, di cui oltre l’80% ascrivibile all’effetto COVID-19. Per capire meglio l’entità di tale perdita, basti pensare che si tratta di circa il 50% della nuova occupazione che si sarebbe generata da un flusso teorico stimato di nuove imprese iscritte nei mesi di marzo e aprile di quest’anno in assenza di crisi.

Non stupisce che la regione che ha perso maggiormente questo tipo di occupazione è la Lombardia: sia in termini assoluti, con una perdita di oltre 6 mila nuovi occupati, sia in termini relativi, incidendo il fenomeno per oltre il 60% sulla nuova occupazione che si sarebbe generata da un flusso teorico di start-up in assenza di crisi (Fig. 5). Se le regioni più grandi sono quelle che registrano le maggiori perdite occupazionali in valori assoluti per ovvie ragioni legate al fattore dimensione, merita comunque sottolineare come vi sia una elevata correlazione regionale tra i valori della nuova occupazione persa e il totale dei casi di Coronavirus (corr: 0,8, p<0,01).

Anche guardando alla diffusione della pandemia in rapporto alla popolazione residente si scopre che, oltre alla Lombardia, le regioni dove l’occupazione persa incide maggiormente sull’occupazione teorica che si sarebbe generata dalla natalità imprenditoriale in assenza di crisi sono le Marche, la Toscana, il Lazio, il Friuli Venezia Giulia, l’Emilia Romagna, il Piemonte e la Liguria: a parte il Lazio, si tratta di tutte regioni che rientrano nella prima metà della graduatoria per numero di casi di Coronavirus per abitante (l’indice di correlazione tra queste due serie è positivo con un apprezzabile livello di significatività: 0,5, p<0,05) (Fig. 4).

Fig. 4 – Il virus “che infetta” anche l’occupazione delle start-up (casi Covid per mille abitanti e % nuova occupazione persa(a) sul totale della nuova occupazione teorica(b))

(a) Nuova occupazione persa: nuova occupazione (al netto di coloro già occupati) persa a causa della riduzione delle start-up nel bimestre marzo-aprile 2020. (b) Nuova occupazione teorica: nuova occupazione (al netto di coloro già occupati) e che si sarebbe generata dal flusso teorico delle start-up in assenza di crisi. I valori 49,3 e 3,4 corrispondono alla media Italia.

 Fonte: elaborazioni degli autori su dati Unioncamere-Infocamere e ISTAT

Fig. 5 – Chi ha perso di più e chi di meno tra le regioni italiane (nuova occupazione persa(a) dalla riduzione tendenziale delle startup nel bimestre marzo-aprile 2020, valori assoluti e % su nuova occupazione teorica(b))

 (a) Nuova occupazione persa: nuova occupazione (al netto di coloro già occupati) persa a causa della riduzione delle start-up nel bimestre marzo-aprile 2020. (b) Nuova occupazione teorica: nuova occupazione (al netto di coloro già occupati) e che si sarebbe generata dal flusso teorico delle start-up in assenza di crisi

Fonte: nostre elaborazioni su dati Unioncamere-Infocamere e ISTAT

In complesso, il dato dei 31.400 nuovi occupati persi a causa della diminuzione delle start-up potrebbe sembrare non così elevato a primo impatto, ma se si ricorda che lo stesso è collocato su un intervallo di soli due mesi restituisce maggiormente la sua portata. Solo i prossimi mesi, con la riapertura delle attività economiche, ci diranno se la riduzione della natalità di impresa in questi due mesi di marzo e aprile è stata solo un episodio legato al lockdown, oppure anche a quella crescente incertezza che, pensando a Keynes, sta facendo sì che siano le scelte di oggi a dipendere dalla nostra visione di futuro (Keynes, 1936).

Certo è che l’Italia non può permettersi una nuova virata verso il declino della natalità di impresa come è già successo con l’ultima crisi del 2008-2009. I dati annuali sul numero di imprese iscritte mostrano chiaramente come dal 2008 il flusso delle iscrizioni sia tendenzialmente calato: si è passati da una media annuale nel periodo 2000-2007 di 477 mila iscrizioni ad una media di poco meno di 378 mila nel periodo 2008-2019. Un’altra riduzione di 10 punti percentuali come questa potrebbe avere effetti negativi non di poco conto sulle condizioni macroeconomiche e sociali di medio-lungo periodo del nostro Paese.

In conclusione, i risultati delle nostre stime mettono in luce le dimensioni degli effetti di una crisi senza precedenti da un nuovo punto di vista, quello del declino delle start-up, differenziandosi da altri punti di analisi, quali le previsioni occupazionali (es. Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2020), modelli di impatto di breve e di lungo periodo sulla disoccupazione (Gregory et al., 2020; Kong, Prinz, 2020), o le  valutazioni sulle professioni a maggior rischio contagio (Caravella, Menghini, 2020; Barbieri, Basso, Scicchitano, 2020).

I risultati della nostra analisi vogliono fornire un contributo alla politica industriale ponendo all’attenzione il tema dell’imprenditorialità, perché subito dopo le prime misure economiche di sostegno ai redditi, arriverà immediatamente il turno della politica industriale, dedita al sostegno e allo sviluppo delle attività produttive (Brancati, 2020) nel senso della competitività. E il supporto alla nuova imprenditorialità è sicuramente uno dei passaggi per raggiungere tali obiettivi.

Marco Pini e Alessandro Rinaldi, Unioncamere-Si.Camera

Riferimenti bibliografici

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Note

(1) Il presente articolo riflette esclusivamente le opinioni degli autori, senza impegnare la responsabilità dell’Istituzione di appartenenza.

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